Un manifesto “di resistenza democratica” è stato pubblicato sul Corriere della Sera per la firma di un paio di centinaia di accademici europei, in solidarietà con la Harvard University, obiettivo di un’offensiva a vasto raggio da parte del presidente americano Donald Trump.
L’iniziativa si è unita a migliaia di altre in tutto il mondo quando la Casa Bianca sta andando in escalation contro il più antico, prestigioso e ricco campus degli Stati Uniti, tagliando i fondi federali e introducendo restrizioni per l’accesso degli studenti non americani.
L’appello partito dall’Italia cade peraltro in una fase fluida della “guerra di Harvard”, segnata fra l’altro, a inizio settimana, dalla notizia del licenziamento in tronco di una docente ordinaria, l’italiana Francesca Gino, scienziata del comportamento. Una cacciata clamorosa, che ad Harvard aveva l’ultimo precedente noto nel lontano 1940.
L’accademica rimossa dalla sua “tenure” è un’economista aziendale che aveva raggiunto una rapida fama internazionale nel campo dell’etica professionale e del comportamento organizzativo. E di natura etica è stato il capo d’accusa, sfociato in condanna dopo quattro anni di indagini e contenziosi: “frode scientifica e illeciti accademici”.
Gino – laureata all’Università di Trento e poi alla Scuola Sant’Anna di Pisa prima di volare a Boston – avrebbe falsificato dati di uno studio sull’impatto dei diversi gradi di “onestà” nei comportamenti all’interno delle grandi organizzazioni.
La docente era giunta ad Harvard prima per il dottorato e poi arruolata nella faculty nel 2010, poco più che trentenne. Viene ora rimossa dopo appena 15 anni (ma era già stata sospesa dopo l’undicesimo) per gravi infrazioni all’etica professionale della ricerca scientifica. Difficile negare che i proverbiali criteri selettivi e di valutazione di quella che è considerata la più autorevole università del mondo ne escano malconci. E al problema emerso per uno dei 2.400 docenti stabili difficilmente possono essere estranei tutti i 21mila studenti del campus.
La fama di essersi trasformata in un diplomificio a prezzi stratosferici e in una lobby accademica più ricca e potente che eccellente sul piano scientifico e didattico, è d’altronde il tallone d’Achille di Harvard da ben prima di finire nell’occhio del ciclone per la gestione delle contestazioni anti-israeliane e poi per lo scontro con l’amministrazione Trump. Anzi: c’è chi ritiene che ad Harvard sia emblematicamente iniziata la crisi epocale di un format plurisecolare di formazione universitaria, nei suoi modelli culturali come in quelli istituzionali.
Forse non è stato per caso che Gino fosse diventata una celebrity ad Harvard anche per aver scalato a tempo di record la classifica degli accademici meglio pagati: già nel 2020 era la quinta nel ranking, con più di un milione di dollari di compenso annuo. Ciò era stato consentito anche grazie a una cattedra finanziata dalla ricchissima famiglia indiana Tandon, fra l’altro molto impegnata a Bollywood. Dei Tandon è nota una mega donazione di 100 milioni di dollari alla New York University. Quella ad Harvard non è nota, ma si suppone almeno confrontabile.
Il mecenatismo accademico è fondativo nel mondo universitario anglosassone, ma sul suo gigantismo indotto dalla globalizzazione Trump ha ora puntato il dito e i cannoni dell’amministrazione. Campus sempre più simili a hedge fund appaiono agli occhi più critici – sicuramente quelli dell’aanti-élitismo trumpiano – centrali di riciclaggio di capitali internazionali alla ricerca di corsie rapide e preferenziali negli affari, nella politica, nei media all’interno degli States.
Chi comanda nelle università Usa? I nuovi turbocapitalisti non americani (dagli arabi agli israeliani, dagli indiani ai cinesi)? Sono loro ad aver strappato il potere di decidere chi ricerca/insegna cosa nei campus che formano la classe dirigente americana e globale? Sono loro che forzano a suon di dollari ammissioni, lauree e incarichi per familiari, collaboratori, allievi o semplici concittadini? E questo è un bene o no per l’America? E merita i miliardi finora forniti ai grandi campus privati anche dai contribuenti americani, per la larga maggioranza dei quali Harvard rimane irraggiungibile? Il caso Gino – un american dream dichiarato dalle stesse autorità accademiche un fake inaccettabile – sembra offrire proprio ora più argomenti a favore della crociata populista di Trump che a quella “democratica” degli accademici harvardiani e dei loro fiancheggiatori europei.
Non sembra in fondo banale neppure che la docente licenziata fosse in forza alla Harvard Business School. È il principale hub lobbistico della Corporate America, messo nel mirino da Trump in quanto fucina di cultura politically correct, declinata nella filosofia manageriale Diversity-Equity-Inclusion (DEI).
È l’approccio programmaticamente contro-meritocratico che Trump vuole ora smantellare ovunque, incontrando un crescente favore da parte dei grandi gruppi d’Oltre Atlantico.
Bene: anche Harvard – essa stessa una grande impresa – non ha mostrato troppe remore nel sacrificare la protagonista di una culture war ormai datata e sempre più discussa, perfino nei campus-santuario del politically correct. Una dottrina che nelle reti universitarie come nel Big Business e nel Deep State è giudicata sempre più gravida dei costi e dei rischi dati dalla tutela ideologica di ogni minoranza immaginabile nell’assortimento dei corpi docenti, degli iscritti e dei piani di studio. Il primato scientifico-tecnologico dell’America è minacciato più da “Maga”oggi o dall’onda lunga del wokismo accademico?
Non da ultimo: Gino è stata rimossa per ragioni in qualche modo accostabili a quelle che hanno portato – poco più di un anno fa – alla defenestrazione della rettrice Pauline Gay, prima donna afro al vertice di Harvard dopo oltre tre secoli.
La ragione reale della destituzione è stata la resistenza di Gay alle pressioni dei grandi donatori (in particolare israeliti, vicini al Partito repubblicano) e di una parte del corpo docente a favore della repressione immediata dei movimenti pro-palestinesi all’interno del campus dopo il 7 ottobre 2023. Ma il licenziamento è stato formalmente agganciato a un dossier spuntato in tempo reale ad accusare di plagio alcuni studi politologici della rettrice in odore di antisemitismo.
Assai prima che Trump entrasse in campo, dunque, ad Harvard è andato in scena uno show che ha imbarazzato anche parte dell’establishment liberal. In un clima ben lontano dalla trasparenza liberaldemocratica insegnata da Harvard ad allievi come i presidenti John Kennedy o Barack Obama, l’università ha dovuto riconoscere di aver portato sulla sua massima poltrona una docente falsaria, peraltro eletta dall’intero corpo accademico appena un anno prima.
Un anno dopo, l’accusa di fake government sta investendo intanto con forza estrema l’intero establishment “dem”, che avrebbe tenuto nascoste per anni all’intero Paese le reali condizioni di salute del presidente Joe Biden. L’ombra del Watergate sembra tornare mezzo secolo dopo a campi invertiti e non è alla fine così sorprendente l’afasia dei dem al Congresso di Washington di fronte alle smanie quotidiane di Trump.
Che la “guerra di Harvard” sia diversa rispetto al canovaccio elementare, manicheo e ideologico ritessuto in fretta anche dai media europei era comunque divenuto chiaro già da qualche giorno. Il New York Times (trincea mediatica anti-Trump e pro università liberal) ha pubblicato un lungo intervento di una celebrità scientifica autentica dell’ateneo di Boston, lo psicolinguista Steven Pinker.
Il quale ha respinto con fermezza le premesse e i modi dell’assalto di Trump, ma essenzialmente come introduzione a una lunga auto-requisitoria: assai critica sulla risposta di Harvard nel contrasto all’antisemitismo, ma anche sui cedimenti della tradizione accademica meritocratica e sugli eccessi della dittatura woke contro la libertà di pensiero, parola, ricerca e insegnamento, capisaldi costituzionali della civiltà americana.
Una (probabile) mela marcia frettolosamente gettata fuori dal campus dopo essere stata comprata a peso d’oro può essere stata alla fine meno dannosa per l’eccellenza di Harvard di decine di mele buone buttate nella spazzatura in silenzio o rifiutate in partenza perché non avevano il “sapore unico” del politically correct.
Senza dimenticare che i cancelli di Harvard sbarrati contro il “barbaro” Trump sono gli stessi che sono stati spalancati un anno fa – come quelli del Congresso – al premier israeliano Netanyahu. Che è stato il vero mandante della decapitazione di Gay ad Harvard. Ma allora non si levò alcun appello “democratico”, tanto meno dall’Europa. Ora sì, anche contro Netanyahu, ma con tre, quattro, cinquecento giorni di ritardo.
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