Siamo ormai a quaranta giorni dalle elezioni politiche e, mentre si assiste a un dibattito politico che interessa sempre meno la grande maggioranza dell’opinione pubblica, si vede nei partiti attuali (dal nome spesso esotico) un crescendo di nervosismo che rasenta l’isteria.
C’è qualcuno che ha azzardato dei paragoni tra queste consultazioni del 25 settembre 2022 e quelle del 18 aprile 1948, le prime vere elezioni politiche italiane, che segnarono la sconfitta delle sinistre, del “fronte popolare” composto dall’alleanza tra Pci e Psi, e quindi la conferma, in quell’epoca, alla futura scelta atlantica (1949) e alla politica centrista che durò fino agli anni Sessanta.
Altri paragonano il 25 settembre al 27 marzo 1994, quando dalle urne spuntò il cavalier Silvio Berlusconi, che sconfisse uno dei “sopravvissuti” della sinistra comunista più “ardita” e più inutile, Achille Occhetto, ex ingraiano, anti-amendoliano e antisocialista per vocazione intima, naturalmente riciclatosi, dopo la Caduta del Muro con la svolta della Bolognina il 12 novembre 1989, da segretario del Pci a segretario del Pds.
Era la seconda botta epocale che riceveva la sinistra di origine comunista italiana, perché Achille Occhetto si era presentato come il capo di una “gioisa macchina da guerra” e si rimangiava, in nome della “questione morale”, una scelta politica che aveva fatto ridere tutto il mondo democratico, in quanto sostituiva con l’etica lo stretto legame avuto con un regime e un’ideologia che disseminò il mondo di cadaveri (100 milioni circa secondo i calcoli fatti da Stéphane Courtois nel Libro nero del comunismo).
Pochi anni dopo François Furet, con il suo Il passato di un’illusione, sembrava stilare una sentenza definitiva su quello che era stato il “perno” anche della sinistra italiana.
Ma nonostante queste sconfitte, la sinistra comunista e post-comunista italiana ha sempre condizionato in negativo (anche oggi) tutta la sinistra e non ha mai permesso, se non per brevi tratti, che un’autentica formazione politica riformista, tipica in quasi tutti i Paesi democratici, si consolidasse e periodicamente governasse.
L’Italia è, come noto, una grande anomalia, dove anche la prima borghesia liberale, che si era formata dopo l’unificazione nazionale, aveva a un certo punto “sposato” il fascismo e, caduto questo, praticato una vocazione monopolistica, meritandosi il titolo di “borghesia capitalista stracciona” coniato da Giorgio Amendola.
Nel passato e prima dell’avvento del fascismo, la sinistra riformista di Filippo Turati e Anna Kuliscioff fu sempre compressa tra un liberalismo arretrato, poi tra il fascismo nascente e il massimalismo che arrivava direttamente dalla Russia leninista, che purtroppo influenzò anche vasti settori del socialismo italiano e spesso si accordò con una visione cattolica contorta, che si coniugò nel catto-comunismo dell’ultimo dopoguerra.
La sequenza di fascismo, influenza leninista, guerre e tentativi di egemonizzare la Resistenza e la guerra partigiana, con manipolazioni storiche volgari, hanno creato una confusione pericolosa nella sinistra italiana.
Occorrerà aspettare il 1956, l’invasione dell’Ungheria da parte sovietica, la tragica carneficina di Budapest, per riscoprire il socialismo riformista.
Ci vollero anni e si dovette combattere diversi nemici. Pietro Nenni, dopo il 1956, prese la distanze dai comunisti, costruì un solido rapporto politico, ma anche di amicizia, con Aldo Moro, dando vita ai primi governi di centro-sinistra e a una politica di programmazione democratica che coinvolgeva tutte le forze democratiche del Paese.
Ma la creazione di una forza riformista ampia, che coinvolgeva anche una parte consistente del Pci, quella amendolaina, oltre che la riunificazione con il partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat, fu contrastata prima dal “sessantottismo” senza futuro e senza scelte politiche concrete, poi dalle scissioni come quella dello Psiup, pagate direttamente dai sovietici attraverso i canali di finanziamento consueti tra Urss e Pci.
Di questo, ad esempio, si è sempre parlato in modo quasi distratto e non si capisce perché, pur con la stagione di “Tangentopoli”, non sia mai uscito sui giornali anche il solo numero di un conto bancario che era noto a tutti gli addetti ai lavori: il Pci aveva a disposizione sulla filiale londinese della Bank of Cyprus il conto numero: ASS 100203939/560 alimentato da traffici con i sovietici.
Comunque, malgrado il sessantottismo, la deriva terroristica, la presenza di un Pci diviso al suo interno ma con una grande forza elettorale, anche la storia italiana riesce a incamminarsi verso una formazione riformista.
Bettino Craxi è il naturale erede di Nenni. È il giovane Craxi che viene invitato da Willy Brandt nel 1977 a inaugurare la casa di Marx a Treviri ricostruita dopo le devastazioni naziste. Poi Craxi va al governo e l’Italia entra nel G7 e diventa la quarta potenza economica al mondo, tra i furori di Margaret Thatcher.
La ripresa italiana e il crollo dell’Urss sembrano l’anticamera di una svolta, finalmente, anche nella sinistra italiana. Ma i colpi di coda della storia sembrano incredibili.
Tutto quello che era stato seminato dalla cultura comunista e catto-comunista per anni emerge nel 1992, tra gli intellettuali “redenti”, secondo la grande definizione di Mirella Serri, cioè di quelli che vissero due vite, prima a fianco del fascismo e poi a fianco del comunismo. Emerge attraverso un perverso collegamento tra magistratura e stampa della “borghesia stracciona”.
L’attacco al riformismo emerse nella magistratura più screditata nel mondo democratico occidentale, quella che si inchinava al codice Rocco (guardasigilli fascista) e all’azione senza regole dei pubblici ministeri, che potevano non rispettare la terzietà del giudice e si guardavano bene dal rispettare un fondamento del diritto democratico nel processo: la separazione delle carriere tra giudice e pm, per garantire un processo accusatorio e non inquisitorio, come ancora avviene.
Guarda caso, l’Italia del 1992 fino al 1994 si trasforma in un binomio politico dove vengono salvati post-fascisti e post-comunisti, mentre vengono cancellati, per una questione di “finanziamento illecito”, conosciuto da tutti e controfirmato dai presidenti delle Camere, ben cinque partiti democratici.
Di fatto, è la cultura dominante in vari settori strategici della società italiana che ha impedito l’affermazione e il consolidamento di una forza riformista italiana autentica. Ha vinto il catto-comunismo nel 1992, ma la vittoria, diventata per non si sa quale ragione “seconda repubblica”, è diventata nel giro di trent’anni una lenta e inesorabile sconfitta del Paese.
Oggi, alla vigilia delle lezioni del 25 settembre, si parla non più di una vittoria della sinistra o del Pd che dovrebbe rappresentarla, ma piuttosto ci si chiede se arriva primo il partito di Enrico Letta o quello di Giorgia Meloni.
Ma nel fare i pronostici sembra di essere alla corse dei cavalli. I due leader sono i superstiti della sinistra e della destra, ma non le rappresentano neppure completamente. E il dibattito è diventato un dialogo da bar, senza naturalmente che si faccia un congresso, un convegno, oppure si riuniscano organi di partito che in passato, con le loro deliberazioni, hanno fatto storia.
In queste elezioni, tra probabile assenteismo e grande incertezza, si può vedere solo il punto finale dell’antipolitica che ha caratterizzato 30 anni di vita italiana. Il 25 settembre probabilmente non ci sarà da fare paragoni con il passato o le elezioni decisive del passato.
L’unica cosa che viene in mente è l’incipit del “18 brumaio” scritto da Marx, quando ricordando il colpo di Stato di Luigi Bonaparte ricordava che Hegel, scrivendo sui ritorni storici, si era dimenticato di dire che la storia prima si snoda come tragedia ma poi diventa una farsa.
Forse, dopo il 25 settembre, possiamo azzardare che assisteremo a una farsa molto triste e anche lunga.
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