Omicida, certo, anzi pluriomicida. Assassino senza se e senza ma, condannato e incarcerato, ricercato in mezza Europa, estradato, imprigionato un’altra volta, messo alla prova con l’offerta di un buon lavoro fuori dal carcere di Bollate, in un vicino ristorante zona Stazione Centrale di Milano, ma con la clausola di tornare ogni sera dietro le sbarre dove, parola del suo avvocato, “si era sempre comportato bene”.
Cosa voglia dire esattamente, tanto è vaga la dichiarazione, non sappiamo. Fatto sta che Emanuele De Maria, 35 anni, è tornato a “comportarsi male” e qui il significato è molto più preciso: dopo l’omicidio del 2016 nel Casertano ai danni di una ventitreenne tunisina, ha ucciso ancora, questa volta una 35enne collega di lavoro cingalese, con cui aveva avviato una relazione (pare che lei volesse lasciarlo) e tentato di far fuori un compagno dei due, italo-egiziano cinquantenne.
Trentacinque anni di vita balorda, sprecata, gettata alle ortiche. Nemmeno il “buonismo” (come chiamarlo altrimenti?) della giustizia che dapprima giudica il primo omicidio meritevole di “soli” 14 anni di galera, che poi riduce a 12 e infine, arrivati più o meno a metà della pena, gli “alleggerisce” con un permesso quotidiano di uscita diurna dall’istituto di pena per motivi di lavoro, riesce ad indurre l’uomo a più miti consigli.
Venerdì scorso non rientra in carcere, compie presumibilmente il secondo omicidio (il cadavere della barista sarà ritrovato al Parco Nord di Milano nel pomeriggio di domenica con numerose ferite da accoltellamento) e tenta il terzo prima di acquistare un biglietto per l’ascensore che lo porta fra le guglie del Duomo di Milano: da lassù l’esistenza gli appare forse ancora più inutile, anzi insopportabile e si lancia nel vuoto.
Storia di ordinaria follia, si potrebbe dire, non fosse per un particolare a suo modo inquietante: prima del gesto fatale che lo porterà a schiantarsi al suolo, in mezzo alla gente “normale” a passeggio il primo pomeriggio festivo, scrive un whatsapp alla madre (forse le telefona anche, qui le fonti giornalistiche divergono): “Ho fatto una cazzata, chiedo perdono. Ti voglio bene. Tanto. Tanto”. L’ultimo, disperato appello alla vita, l’ultimo, drammatico grido di dolore, la conferma di sentirsi ancora e sempre figlio nonostante tutto il sangue versato, l’inganno, il peccato.
Una sorta, si lasci passare l’accostamento, di laico “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” che sono le ultime parole di Gesù prima di spirare in croce. Ma quella di Emanuele era diventata una croce troppo pesante per lui e all’ennesimo rifiuto d’amore (sempre che venga confermato, la fotografia di lei in tasca) ha detto “basta”.
Nessuna giustificazione per quello che ha commesso, nessun nuovo buonismo che è il male di tutti i mali per una società senza regole, dove tutto è uguale a tutto ed è sempre più difficile distinguere il bene dal male.
Eppure, l’appello alla vita rivolto a chi la vita gli aveva dato, annacqua i giudizi tranchant, impedisce di tapparsi le orecchie. Anche nel punto più basso della sua infame esistenza, oltre il quale era impossibile sprofondare ancora, Emanuele ha avuto coscienza in sé d’un sopravvissuto barlume di luce e ha pensato alla mamma (proprio nel giorno della sua festa) come all’estremo desiderio di rimanere attaccato alla vita.
Troppo tardi, però. I conti non tornano più e allora fa precedere a quella filiale professione di fede verso l’amore materno la richiesta di essere perdonato, perché solo così può mantenere viva la speranza nell’eternità. Non ha forse fatto così, riconoscendo in punto di morte la nefandezza del proprio operato, anche il “buon ladrone” chiedendo perdono al Cristo morente?
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