Emanuele De Maria riapre il dibattito sulle misure alternative: nell'83% dei casi funzionano, ma se falliscono le conseguenze sono tragiche.
Il caso di Emanuele De Maria, il detenuto ammesso al lavoro esterno che ha aggredito due persone uccidendone una per poi suicidarsi, ha suscitato numerose polemiche, inducendo anche il Ministro della Giustizia a operare degli approfondimenti. È un mestiere difficile quello del magistrato di sorveglianza: il giudice cerca di capire se un detenuto deve stare ancora in prigione oppure se è pronto per uscire e iniziare un percorso di integrazione sociale.
Il magistrato concede o nega i benefici previsti dalla legge penitenziaria sulla base delle relazioni che gli vengono trasmesse dagli operatori penitenziari, criminologi, assistenti sociali e psicologi che hanno seguito il percorso del detenuto durante il periodo di reclusione. E poi c’è l’intuito, l’esperienza, quelle doti che inducono il giudice a fidarsi o meno della persona che gli chiede la libertà.
I numeri dicono che nella stragrande maggioranza i magistrati non sbagliano. Solo l’1,2% dei soggetti ammessi ai benefici previsti dalla legge penitenziaria (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, permessi premio) commette nuovi reati durante lo svolgimento della misura alternativa. A fronte di questa percentuale irrisoria di persone che tradiscono la fiducia loro concessa, c’è il dato per cui l’83% dei detenuti che hanno espiato la pena in misura alternativa non commetterà più delitti. Insomma, le misure alternative abbattono la recidiva e permettono di recuperare alla società civile i detenuti che lo desiderano.
Ci sono poi i De Maria, quelli cioè che non ce la fanno, che tradiscono la fiducia loro concessa. Ma sono casi isolati, di persone che hanno problemi mentali o ambientali sfuggiti agli operatori penitenziari. Non è quindi giusto addossare la colpa di quanto accaduto al magistrato, e neppure agli operatori penitenziari, in quanto è a volte difficile andare a fondo della personalità complessa di un soggetto: può accadere che tutto sembri convergere verso un positivo percorso di recupero, che va quindi incentivato e incoraggiato, ma poi accade l’imprevedibile.
Come per il De Maria, che viene descritto come un detenuto modello, che ha attivamente partecipato al percorso rieducativo propostogli in carcere, che ha lavorato con profitto per oltre un anno in un hotel, ma che poi inopinatamente uccide e si uccide. Ma l’animo umano è a volte imperscrutabile e la persona tiene comportamenti imprevedibili. Può essere, quindi, che per il De Maria sia stato fatto un errore di valutazione, ma è assolutamente un caso raro e occorre anche tener conto di un altro fattore: il sistema carcerario in Italia è in grande sofferenza.
A fronte di un mostruoso sovraffollamento (62.467 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 51.281), si registra una notevole carenza di personale (operatori e magistrati), con conseguente inevitabile diminuzione della qualità del servizio offerto.
La tragedia di Emanuele De Maria accaduta a Milano non sia quindi fonte di nuovi e inutili attacchi ai magistrati e agli operatori carcerari, ma sia punto di partenza per un rafforzamento del sistema.