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Home » Esteri » Medio Oriente » EMIRATI, OMAN, YEMEN/ Mons. Martinelli: il Risorto è qui, possiamo costruire la pace anche coi musulmani

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EMIRATI, OMAN, YEMEN/ Mons. Martinelli: il Risorto è qui, possiamo costruire la pace anche coi musulmani

Cristiani testimoni della Resurrezione anche in mezzo ai musulmani: Oman, Emirati modelli di accoglienza. Nello Yemen situazione pesante

Int. Paolo Martinelli
Pubblicato 21 Aprile 2025
Mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico dell'Arabia Meridionale (foto da Flickr, Apostolic Vicariate of Southern Arabia)

Mons. Paolo Martinelli, vicario apostolico dell'Arabia Meridionale (foto da Flickr, Apostolic Vicariate of Southern Arabia)

Il dialogo con le altre religioni è possibile, anche se si vive in Paesi come Oman ed Emirati Arabi, che, anzi, si mostrano capaci di accoglienza anche nei confronti di altre confessioni. La situazione nello Yemen, invece, è molto più difficile: la presenza dei cristiani deve fare i conti con la presenza degli Houthi e la guerra nella quale sono coinvolti.


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Eppure, racconta Paolo Martinelli, vescovo vicario apostolico per l’Arabia Meridionale, anche in questi Paesi i cattolici, tutti migranti e di nazionalità diverse, sanno dare testimonianza della loro fede nel Risorto ed essere un segno di pace per tutto il Medio Oriente.

In che modo un evento così travolgente come quello di oggi, la resurrezione di Cristo, sfida i nostri cuori smarriti?


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Nella risurrezione di Cristo troviamo il fondamento della “grande speranza”, come diceva Benedetto XVI, oltre alle piccole speranze di cui sono costellate le nostre giornate. Celebriamo la vittoria di Cristo sul male e sulla morte, mentre il mondo è continuamente ferito da lacerazioni, conflitti e guerre. Il nostro cuore è smarrito tutte le volte in cui poniamo la speranza in ciò che è effimero, in una “nostra” sicurezza.

Cristo, invece, risorge con il suo corpo di carne; non risorge un’“idea” di Cristo o semplicemente il suo “messaggio”; egli si presenta al mattino di Pasqua ai suoi discepoli stupiti come il “vivente”, nel suo corpo, che porta i segni della passione. Papa Francesco dice che con Cristo “il male non ha più potere, il fallimento non può impedirci di ricominciare”.


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Il mistero della sua risurrezione assicura il destino positivo ultimo dell’umanità e del cosmo. Questo cambia radicalmente il modo di vivere il presente. In questa prospettiva, la vita è definita da una ripresa continua del cammino, dalla possibilità di un continuo nuovo inizio. Essere pellegrini di speranza vuol dire ricominciare ogni giorno, qualunque sia la circostanza e la condizione, perché sostenuti dalla presenza amorevole di Cristo.

È molto probabile che i veri cuori smarriti stiano dalle nostre parti piuttosto che intorno a lei, nella sua comunità. Qual è la “forza” semplice del suo popolo? Trovarsi continuamente “sfidato”, provocato, dalla presenza fisica di un’altra religione? O altro?

Innanzitutto, rimango edificato e sorpreso da come il nostro popolo cristiano, formato interamente da migranti che provengono da oltre cento nazioni, vive intensamente le celebrazioni pasquali, fa memoria della passione, morte e risurrezione di Cristo.

Prima ancora dell’inizio della Settimana Santa, nelle nostre chiese si è visto un afflusso enorme di fedeli per le celebrazioni liturgiche e per poter accostarsi al sacramento della confessione. La forza del popolo cristiano in questi Paesi è l’unità in Cristo risorto, nonostante tutte le tensioni.

La partecipazione della gente alle celebrazioni è molto viva, attiva, nel canto e nella preghiera. Nella preghiera dialogano con Cristo presente nel mistero.

Sono commosso quando, dopo le celebrazioni, attraversando il sagrato, la gente mi ferma e mi vuole incontrare per ricevere una benedizione, per raccontarmi qualche fatto importante della loro famiglia e chiedere una preghiera. Mi colpisce la loro fede, semplice e grande, dove ogni cosa e ogni volto diventano segno della presenza risorta di Cristo.

Quanto incide la condizione migratoria? 

La condizione di essere migranti in Paesi islamici, come gli Emirati Arabi Uniti o l’Oman e lo Yemen, favorisce la riscoperta della propria fede, soprattutto il rapporto tra la fede e la vita quotidiana. Poco prima di Pasqua si è concluso il Ramadan; vedere il modo con cui i fedeli musulmani vivono questo tempo intenso provoca noi cattolici a interrogarci su come viviamo la nostra fede e su come la fede sia capace di dare forma alla vita.

L’essere quotidianamente a contatto con persone di fedi diverse non conduce al relativismo, ma ci porta a interrogarci sul senso della nostra fede cristiana e ad approfondirla. Trovarci in questa parte del mondo ci spinge a una verifica più profonda della fede, sperimentando come essa sia capace di sostenere la vita quotidiana.

E i musulmani come si pongono di fronte a voi?

L’anno scorso, nel giorno di Pasqua, c’è stato un episodio interessante. Dopo la Messa che abbiamo celebrato nella Saint Francis Church – la chiesa che si trova all’interno della Abrahamic Family House, accanto a una moschea e una sinagoga – è stato offerto un pranzo ai nostri fedeli. Siamo stati serviti molto bene.

A un certo punto ci siamo accorti che per coloro che ci servivano, tutti musulmani, era ancora Ramadan, tempo di digiuno. Allora li abbiamo ringraziati in modo particolare perché, mentre noi festeggiavamo la Pasqua, loro digiunavano. Uno dei ragazzi che servivano ai tavoli ci ha detto che erano ben contenti di fare questo per noi perché sapevano che era la festa più importante dei cristiani.

“La nostra speranza si chiama Gesù”, ha detto papa Francesco. Cosa ha significato per lei, nel giorno della Resurrezione, questo giudizio del Santo Padre?

Sono molto grato al Santo Padre per questa espressione semplice e potente, perché ci ricorda che la speranza non è mai da confondere con un generico ottimismo o con una nostra capacità, nemmeno con un’idea o uno sforzo etico.

La speranza è una presenza, la speranza è una persona. La speranza è il “Dio dal volto umano” che ha preso su di sé il male e lo ha vinto per sempre, permettendo in questo modo la grazia di un continuo nuovo inizio. Per me questa frase vuol dire tutto; sono stato mandato dal Santo Padre qui quasi tre anni fa; tutto è nuovo e diverso.

Dove poggiare la vita? Su un progetto pastorale? Tutto è utile, ma la speranza è una persona, è Cristo. Questa speranza non delude.

In un tempo in cui la religione viene talvolta strumentalizzata a fini politici, cosa significa realmente dialogare nel nome di Dio?

La costante minaccia del tempo presente, purtroppo, è l’uso nazionalistico della religione che impedisce il confronto, oppone le parti e giustifica la violenza in nome di Dio. Tutto questo è un tradimento dell’autentica esperienza religiosa. Ormai abbiamo una storia preziosa che ci insegna il vero dialogo tra persone di fedi diverse.

Penso innanzitutto al famoso incontro di Assisi nell’ottobre del 1986, fortemente voluto da san Giovanni Paolo II come cammino comune delle religioni che invocano Dio per il dono della pace. Penso, inoltre, al 25esimo anniversario di questo stesso evento ad Assisi, nel 2011, celebrato da Benedetto XVI, che ha coinvolto non solo esponenti di religioni diverse.

Ma anche persone di cultura non credenti ma aperte all’istanza religiosa che accomuna ogni uomo. Infine, penso al percorso realizzato da papa Francesco, in particolare al suo viaggio qui ad Abu Dhabi nel 2019 con la firma del documento sulla Human Fraternity insieme al grande Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, nel quale la cultura del dialogo è considerata la “via” di ogni autentica relazione. Non si tratta affatto di trovare un campo neutro in cui incontrarsi.

Si dialoga solo se si è coscienti delle differenze che ci caratterizzano, per un cammino in cui conoscersi sinceramente, superare antichi pregiudizi e, soprattutto, lavorare insieme per l’edificazione dell’umano che abbiamo in comune. Il dialogo tra persone di fedi diverse rimette a tema la centralità di Dio come questione umana fondamentale. Quando dimentichiamo Dio, andiamo contro noi stessi e diventiamo disumani.

La Terrasanta versa in una situazione catastrofica. Solo i cristiani, laggiù, credono in un Dio che è Misericordia. Potrà mai esistere una pace dove Dio non perdona?

Innanzitutto, è bene ricordare insieme a papa Francesco che Dio perdona sempre, sempre. Il Dio che “non perdona” nasce come strumentalizzazione dell’idea di Dio a scopi nazionalistici e di parte. Infatti, l’immagine di Dio misericordioso è radicata anche nella religione islamica.

Dio è invocato come “il Misericordioso”; nella tradizione ebraica, nei libri della Prima Alleanza, troviamo molti testi in cui Dio viene descritto con sentimenti di profonda misericordia: il Dio dalle “viscere di misericordia”. Per questo, quando i cristiani annunciano Dio come Misericordia in forza dell’incontro con Cristo, dicono qualcosa che riguarda anche le altre religioni, sebbene in questo momento durissimo in Terra Santa sia molto difficile dialogare su questi temi.

Allora che cosa bisogna fare?

Non rimane che la vita della testimonianza umile, semplice e tenace. I cristiani, in forza di Cristo morto e risorto, sono chiamati a essere in Medio Oriente, come in tutto il mondo, del resto, segno di misericordia e costruttori di pace, riparatori dell’umano ferito, seme di riconciliazione e promotori di vita buona per tutti.

Quale può essere oggi il contributo specifico alla pace di una comunità cristiana come la sua?

Il contributo dei cristiani alla pace è, innanzitutto, vivere fino in fondo la propria vita cristiana. Questo vuol dire approfondire ogni giorno di più il rapporto tra la fede e la vita quotidiana. Una fede moralistica o ideologica non edifica, è sterile.

Una fede vissuta e testimoniata in famiglia, nella comunità, nella scuola e nel luogo di lavoro costruisce relazioni sincere. Un altro aspetto molto importante è, per noi, vivere uniti come popolo di Dio, mostrando che la diversità è sempre una ricchezza.

La nostra Chiesa è composta da persone davvero diverse per lingua, nazione, cultura e riti; tuttavia, abbiamo in comune le cose più importanti: la stessa fede, lo stesso battesimo, siamo figli dello stesso Padre celeste. Il Papa ci ha detto che rappresentiamo qui la “polifonia della fede”. Questo mondo diviso e lacerato ha bisogno di vedere che si può essere uniti senza aver bisogno di sopprimere le differenze. In questa prospettiva, penso che l’unità del popolo di Dio, così ricco di doni diversi, sia una testimonianza di pace e una profezia del regno di Dio.

Lo Yemen è tornato al centro del conflitto mediorientale, l’Oman ha ospitato i negoziati USA-Iran. Qual è la sua valutazione del ruolo dell’Arabia e degli Emirati in questo processo?

La situazione in Yemen è effettivamente molto pesante. Il Paese è stremato da dieci anni di guerra civile. L’attacco degli americani agli houthi, che controllano il nord del Paese, certamente è motivo di preoccupazione. Se il conflitto si dovesse estendere, sarebbe molto pericoloso. Occorre assolutamente risparmiare i civili, che hanno già sofferto tanto, soprattutto i bambini.

E nelle altre comunità che seguite?

L’Oman è tradizionalmente un popolo mite e capace di portare avanti mediazioni molto difficili e delicate. Speriamo che il loro impegno, anche in questo caso, porti esiti positivi e duraturi, come è successo anche in passato. Non ho esperienza diretta dell’Arabia Saudita, trovandosi sotto la giurisdizione del vicariato apostolico del nord. Si tratta, certo, di un Paese che sta cambiando molto negli ultimi anni e può giocare un ruolo importante.

Gli Emirati Arabi Uniti, dalla loro fondazione, sono un Paese che ha una grande tradizione di accoglienza, di multiculturalità, dove convivono pacificamente persone di fedi diverse. Sono una presenza molto significativa e di mediazione che contribuisce a edificare relazioni pacifiche e di collaborazione.

Non è un caso che proprio ad Abu Dhabi ci sia stata la prima visita di un pontefice nella penisola arabica ed abbia firmato il documento sulla Human Fraternity (2019), in memoria dell’ottavo centenario dell’incontro straordinario, al tempo delle Crociate, tra san Francesco d’Assisi e il Sultano di Damietta, Al-Malik Al-Kamil (1219).

(Paolo Rossetti)

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