SCIENZAinATTO/ Fuel versus Food: la sfida dei Biocarburanti. Biomasse e Biocarburanti: l’Energia del futuro?

- Carlo Soave

Biocarburanti. Una possibile alternativa ai combustibili fossili, con due problematiche: i costi di produzione e la competizione con la produzione agricola sull’uso dei terreni.

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Il fabbisogno energetico mondiale non potrà, in prospettiva, essere soddisfatto dai combustibili fossili (petrolio, gas, carbone) che gli scienziati prevedono si esauriscano nel giro di poche centinaia di anni. È quindi necessario cercare delle alternative; fra queste, oltre ad altre energie rinnovabili, potranno giocare un ruolo essenziale i biocarburanti. L’autore esamina lo stato attuale delle ricerche e delle realizzazioni che riguardano la produzione e l’utilizzo dei biocarburanti, con particolare attenzione alle problematiche connesse, in particolare quella della conseguente possibile riduzione delle aree di produzione agricola e quindi della produzione alimentare: fuel versus food, come recita il titolo.

Prima di affrontare il tema della contrapposizione «cibo contro carburanti» vale la pena fare un po’ di chiarezza sui termini che useremo: tutti sappiamo cos’è il cibo, ma siamo sicuri di sapere cosa sono i biocarburanti e le energie rinnovabili e le biomasse e le colture energetiche?
Un po’ di glossario sembra necessario.

Energia rinnovabile
Energia la cui produzione non diminuisce la risorsa che la produce, per esempio l’energia idroelettrica, eolica, geotermica, fotovoltaica, solare termico, eccetera, ma anche da biomasse.

Biomasse
Energia solare immagazzinata dalla fotosintesi in prodotti vegetali (legno, colture agrarie e sottoprodotti, reflui zootecnici e urbani contenenti sostanza organica, eccetera).

Bioenergia
Energia (calore, elettricità, carburanti, gas -biometano) prodotta con le biomasse.

Biocarburanti
Carburanti per autotrazione (quindi erogabili dalle pompe come la benzina) prodotti con le biomasse. Si distinguono in biocarburanti di prima generazione, ottenuti da piante a uso alimentare (mais, frumento, semi di piante oleaginose, eccetera) e di seconda generazione ottenuti da piante non a uso alimentare (piante lignocellulosiche, residui agricoli, alghe, eccetera).

Bioetanolo
Alcool prodotto da carboidrati (zucchero, amido, cellulosa) ottenuti da biomasse.

Biodiesel
Metilestere di acidi grassi ottenuti da oli vegetali o grassi animali.

Biogas
Gas contenete 50-70% di biometano, cioè metano prodotto da microorganismi in condizioni anaerobiche, da fonti costituite da biomasse umide, rifiuti organici, reflui urbani e di allevamenti.

Colture energetiche
Piante specificamente coltivate per produrre energia, ivi compreso i biocarburanti.

Il fabbisogno energetico

I consumi energetici attuali nel mondo si aggirano intorno a 13 terawatt/anno (1 terawatt = 1012 watt). Tenendo conto che la gran parte di questi consumi è a carico dei paesi sviluppati (Stati uniti, Europa, Giappone, Russia, parte della Cina) e che ci si attende nei prossimi anni massicci incrementi di consumi energetici da parte dei paesi emergenti (India, Brasile, eccetera) si prevede che il fabbisogno energetico per il 2050 sia intorno ai 25 terawatt/anno. Attualmente più del 80% dell’energia è prodotta da combustibili fossili (petrolio, gas, carbone) e il rimanente si distribuisce tra nucleare, idroelettrico, rinnovabili varie e biomasse. I combustibili fossili sono in realtà ciò che rimane del carbonio fissato dall’attività fotosintetica delle piante che hanno colonizzato il pianeta milioni di anni fa.
Il consumo annuo attuale di combustibili fossili equivale a consumare in un anno il carbonio accumulato dalle piante in un milione di anni di fotosintesi e considerando che la diffusione delle piante sul pianeta risale a 500 milioni di anni fa, le riserve di combustibili fossili dovrebbero esaurirsi in 500 anni. Tenendo conto comunque che già in parte le riserve sono state consumate, (e in modo massiccio dalla rivoluzione industriale) e l’accesso a nuovi depositi diventa sempre più costoso, è evidente che il problema di trovare fonti alternative è un problema reale.
C’è poi la questione dell’incremento della CO2 e dell’effetto serra. Non c’è dubbio che l’uso dei combustibili fossili riporta nell’atmosfera quella CO2 che era stata fissata dalla fotosintesi milioni di anni fa e questo è un fattore che contribuisce al riscaldamento del pianeta (effetto serra determinato dalla concentrazione di CO2 e di vapor d’acqua nell’aria) attualmente in atto (non si vuole qui entrare nel merito se l’attuale global warming sia dovuto a cause totalmente naturali o a cause determinate dall’attività umana o, come più probabile da una mescolanza delle due, ma si vuole solo sottolineare la necessità di cercare fonti energetiche alternative valide, sia perché le fonti tradizionali diventano sempre più costose, sia per potersi affrancare dalla totale dipendenza dai paesi produttori di combustibili fossili, sia anche perché continuare a riversare tonnellate di CO2 nell’atmosfera non migliora certamente il clima).

Tenendo conto di queste considerazioni e a seguito del Protocollo di Kyoto, sottoscritto nella città giapponese di Kyoto l’11 dicembre 1997, l’Europa ha proposto il «Pacchetto Clima 20-20-20». Tale iniziativa prevede per il 2020: l’aumento del 20% nell’efficienza energetica; la riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto al 1990; l’aumento del 20% della quota di energie rinnovabili.
Inoltre prevede l’inserimento di una quota di energia rinnovabile per i trasporti pari al 5% entro il 2015 e al 10% entro il 2020. Del 5% previsto entro il 2015 il 20% dovrà provenire da biocarburanti (bioetanolo e biodiesel) di seconda generazione prodotti sfruttando biomassa lignocellulosica, alghe, rifiuti organici oppure da idrogeno ed elettricità prodotti da fonti rinnovabili. Lo stesso vale per l’obiettivo fissato entro il 2020: del 10% previsto il 40% dovrà derivare da biocarburanti di seconda generazione o da altre fonti rinnovabili.
Sulla base di queste percentuali e dei consumi annui di carburanti, l’Italia nel 2020 dovrebbe produrre qualcosa come 2 milioni di tonnellate di bioetanolo e 3 milioni di tonnellate di biodiesel all’anno (si tenga conto comunque che i consumi di carburanti sono in forte diminuzione in questi ultimi anni a causa dell’incremento dei costi e della crisi del mercato dell’auto).
Le questioni da considerare sono però: i biocarburanti ottenuti da biomasse effettivamente riducono le emissioni di CO2? I costi di produzione sono competitivi con quelli dei carburanti tradizionali? E con quali biomasse si devono produrre i biocarburanti e quante ce ne servono? Ci sarà abbastanza terra per le colture da cibo e le colture energetiche?

I biocarburanti: una minaccia per le colture?

Effettivamente i biocarburanti possono ridurre in maniera significativa le emissioni di CO2 nell’atmosfera (si stima una riduzione dell’ordine del 50% rispetto ai carburanti tradizionali) sostanzialmente perché si riemette nell’atmosfera la CO2 che la pianta ha immagazzinato durante la sua crescita e quindi, teoricamente, si dovrebbe arrivare a un saldo netto uguale a zero (tanta CO2 è stata immagazzinata, tanta CO2 è riemessa); tuttavia bisogna tener conto anche della CO2 prodotta dai consumi energetici necessari per la sintesi dei fertilizzanti, per le lavorazioni eccetera.
Il fattore costo di produzione dei biocarburanti ovviamente va raffrontato con il costo del barile di petrolio, valore notoriamente oscillante e tendente all’aumento. Comunque con un prezzo del barile di petrolio di 80$ al barile, il gasolio viene a costare circa 45 centesimi di euro al litro, mentre il costo del biodiesel è intorno a 80 centesimi di euro al litro, la benzina 40 centesimi di euro al litro contro i 70 centesimi del bioetanolo al litro (non si considerano ovviamente le tasse incluse nel prezzo dei carburanti). È evidente però che l’incremento e l’ottimizzazione della filiera produttiva dei biocarburanti potrà portare a una diminuzione dei costi unitari, mentre il costo del petrolio potrà aumentare ben oltre gli 80 dollari al barile (di fatto è già oggi ben oltre).
Ma veniamo al punto: con quali e con quante biomasse? ci sarà terra abbastanza per le colture da cibo e quelle energetiche? Cominciamo con le colture energetiche di prima generazione per produrre bioetanolo: queste sono essenzialmente le colture amidacee (cioè i semi dei cereali, in primis il granoturco ) e quelle zuccherine (la barbabietola da zucchero e la canna da zucchero, che però non cresce nei nostri climi). Se utilizziamo per esempio la granella di granoturco (il mais) per convertirla in bioetanolo, il rapporto di conversione è circa 3 a 1, cioè da 3 tonnellate di granella otteniamo 1 tonnellata di bioetanolo.
Quindi per ottemperare alle direttive europee ci servono 6 milioni di tonnellate di granella per avere i nostri 2 milioni di tonnellate di etanolo e, assumendo una produttività per il granoturco di 10 tonnellate di granella/ettaro, occorrono 600.000 ettari, pari a circa il 40% della superficie attualmente coltivata a mais in Italia (non si considera qui la barbabietola da zucchero perché ha produttività inferiori e costi di produzione più elevati).

Le cose vanno decisamente peggio per il biodiesel in quanto la produttività delle colture da biodiesel (colza, girasole, soia) è intorno a 2-4 tonnellate/ettaro che, considerata la quantità di materia grassa presente nella biomassa, porta a una produttività media di biodiesel intorno a 0,7 tonnellate/ettaro.
Per raggiungere l’obiettivo dei 3 milioni di tonnellate/anno servono più di 4 milioni di ettari di terreno agricolo. Dato che la superficie arabile utile in Italia si aggira sui 13 milioni di ettari (e non tutti ugualmente fertili) è evidente che la produzione di biocarburanti sarebbe in forte competizione con le colture da cibo, non solo perché il prodotto (granella di mais per esempio) può essere usato sia come fonte alimentare (umana o zootecnica) o come fonte di biocarburante, ma anche per competizione con l’uso del terreno e anche dell’acqua per irrigazione.

I biocarburanti di seconda generazione

Possiamo trovare alternative? Una risposta sembra essere quella dei biocarburanti di seconda generazione, cioè quelli prodotti con biomasse provenienti da piante allevate non per uso alimentare (per il bioetanolo piante lignocellulosiche, e per il biodiesel le microalghe) e che quindi non competono direttamente con le colture da cibo: devono essere anche colture estremamente produttive, capaci di crescere bene anche in terreni marginali e con moderate richieste idriche.
Il grafico riporta le produttività di sette specie di piante lignocellulosiche considerate interessanti per la produzione di bioetanolo. Dai dati, provenienti da una sperimentazione di 7 anni (Di Candilo M., Ceotto E., Diozzi M., 2008. Comparison of 7 ligno-cellulosic biomass feedstock species: 6-years results in the Low Po Valley, 10th Congress of the European Society of Agronomy, Bologna; Multi-functional Agriculture, Agriculture as a Resource for Energy and Environmental Preservation. Avenue Media 3 suppl: 481-482) si vede come la canna comune (nome scientifico Arundo donax) risulta la più produttiva (in media 37 tonnellate di sostanza secca per ettaro anno) nei nostri ambienti pedoclimatici (tutti noi abbiamo visto boschetti di questa pianta crescere spontaneamente ai bordi delle strade, nei terreni incolti, nei fossi eccetera).
[A sinistra: Arundo donax]
Questa pianta ha anche ridotte richieste idriche, è rizomatosa e quindi ricaccia dalle radici dopo il taglio della parte aerea (non deve quindi essere riseminata ogni anno) e non richiede fertilizzanti eccetto che nel primo anno dell’impianto (non per niente Arundo donax è la specie scelta come materia prima per la produzione di bioetanolo in un impianto della “Mossi & Ghisolfi” in corso di costruzione).
Il bioetanolo da piante lignocellulosiche è però più laborioso da ottenere: bisogna liberare la cellulosa e l’emicellulosa dalla lignina che l’avvolge, poi bisogna degradare la cellulosa e l’emicellulosa nei suoi componenti (glucosio e pentosi), convertire i pentosi a composti fermentabili e finalmente fermentare il tutto a etanolo.
La conseguenza è che il costo di produzione è più elevato di quello delle colture amidacee e il rapporto di conversione inferiore (intorno a 4 tonnellate di biomassa per 1 tonnellata di bioetanolo). Comunque se rifacciamo il conto di quanto terreno occorre per il fabbisogno nostrano al 2020, con una produttività arrotondata a 40 tonnellate/ettaro anno, servono 200.000 ettari di terreno pari a un terzo di quanto stimato per il mais.

Produzione di sostanza secca di piante amidacee e di piante lignocellulosiche

Ovviamente non stiamo tenendo conto di quanta materia prima lignocellulosica potremmo ottenere dai residui agricoli (le paglie che restano dopo la raccolta del mais, del riso, del frumento eccetera), dai residui agroforestali e del verde urbano, residui dei quali comunque parte devono essere reinterrati per mantenere la fertilità dei suoli e la parte restante, per essere immessa nel ciclo produttivo dei biocarburanti, richiede un’organizzazione della raccolta differenziata non indifferente.

La produttività delle colture lignocellulosiche

Rimane comunque imperativo, se si vuole ricorrere al bioetanolo di seconda generazione senza competere con le colture da cibo, aumentare la produttività delle colture lignocellulosiche.

Questo obiettivo è possibile? Se la produttività di queste colture fosse già prossima ai massimi teorici raggiungibili sulla base della radiazione solare disponibile che è in ultima analisi la fonte di energia utilizzabile per la produzione di biomassa vegetale tramite la fotosintesi, non varrebbe la pena provare ad aumentare la produttività. Ma le cose non stanno così: l’energia solare non è il fattore limitante la produttività vegetale ma è la macchina stessa, cioè la pianta, che non utilizza al meglio l’energia disponibile.
Per convincersi di ciò basta guardare la produttività di due varietà di mais e dell’ibrido risultante dal loro incrocio allevate nello stesso campo e quindi con lo stesso irraggiamento: l’ibrido è molto più produttivo dimostrando quindi che il fattore limitante è nella pianta stessa, non nell’energia disponibile.

Immagine a destra: al centro la pannocchia di mais ibrido, a lato quelle delle due specie ibridate; nella immagine a sinistra le rispettive piante.

Se l’esempio non fosse sufficiente, si consideri la produttività di una pianta, l’Echinochloa polystachya che, nella foresta amazzonica in condizioni ottimali, produce 100 tonnellate di sostanza secca/ettaro anno. Quindi si tratta di scoprire quali sono i fattori che permettono di migliorare la performance delle colture energetiche nei nostri ambienti.
Ne vogliamo descrivere solo un paio.

I fattori che migliorano la performance

Consideriamo per esempio la capacità di una pianta di intercettare la radiazione solare: se le foglie sono disposte ad angolo retto rispetto al fusto è ovvio che le foglie più in alto ombreggiano quelle più in basso.
[A destra: A) due piante, X e Y, con diversa disposizione delle foglie; B) densità di flusso fotonico fotosintetico sulle tre foglie delle piante X e Y e ritmo di assorbimento della CO2]
Siccome la fotosintesi non può utilizzare più di una certa quantità di luce, risulta che la foglia numero 1 della pianta a sinistra nell’immagine a lato è saturata dalla luce, mentre la numero 2 e 3 non fotosintetizzano al massimo della loro potenzialità. Nella pianta a destra invece, le foglie sono disposte ad angolo acuto rispetto al fusto in modo tale che la luce illumina tutte le foglie.
La numero 1 fotosintetizza meno della foglia corrispondente della pianta a sinistra perché intercetta meno luce, ma la 2 e la 3 lavorano meglio perché sono meno in ombra.
Il risultato è che la fissazione complessiva della CO2 nella pianta a destra supera quella della pianta a sinistra del 20%. Il bello è che l’angolo di inserzione delle foglie sul fusto è un carattere geneticamente determinato e possiamo selezionare quei varianti che corrispondono meglio ai nostri obiettivi.
Un altro fattore da considerare è il catalizzatore, presente in tutte le piante, che permette di fissare la CO2 atmosferica: è una proteina, la più abbondante proteina sulla Terra, chiamata Ribulosio difosfato carbossilasi (Rubisco per gli addetti ai lavori). Questa proteina catalizza (in sostanza accelera e quindi permette) la fissazione della CO2. Il guaio è che questa proteina non distingue bene tra la CO2 e l’ossigeno in modo tale che su 4 reazioni catalizzate, tre utilizzano la CO2 e una l’ossigeno.
La conseguenza è che per il 25% del suo tempo, il catalizzatore lavora a vuoto, non fissa la CO2 ma, ancor peggio, perde il suo tempo con l’ossigeno che obbliga la pianta a spendere energia per rimediare ai prodotti della reazione.
C’è un rimedio: la natura lo ha già trovato! Esistono in natura Rubisco con affinità più elevate per la CO2 che, se inserite nelle colture energetiche, potrebbero permettere produttività più elevate, e questo è il compito della ricerca.
Per il biodiesel di seconda generazione abbiamo indicato le microalghe: sono organismi fotosintetici monocellulari appartenenti a diverse specie che vivono in acque dolci e salate. La produttività è molto elevata (anche 100 tonnellate di sostanza secca/ettaro anno in condizioni ottimali) e con contenuti di olio mediamente intorno al 30% del peso secco. La crescita si avvantaggia anche di elevate concentrazioni di CO2 nell’acqua (fino al 25-30%) fatto che non solo gioca un ruolo positivo nel sequestrare l’anidride carbonica, ma incrementa anche la produzione di olio.

Nonostante questi fattori positivi, la coltura in open ponds o in fotobioreattori è ancora abbastanza costosa in quanto richiede controllo costante della temperatura dell’acqua (intorno ai 20-25 °C), accurata gestione dell’illuminazione e dei nutrienti presenti nella soluzione acquosa.

Impianto pilota per coltura di microalghe in Israele

Modalità di produzione dei biocarburanti

È evidente tuttavia che la produzione di biocarburanti, nelle quantità previste dalle direttive europee e per come si cerca di attuarle, è impostata secondo un modello di tipo industriale nel senso classico.
Grossi impianti di produzione di bioetanolo o biodiesel capaci di trattare elevati quantitativi di biomasse che, per contenere i costi di trasporto, devono essere prodotti in aree prossime agli impianti di trasformazione (con comprensibili problemi di impatto ambientale derivanti da colture intensive di Arundo donax o da ettari di open ponds algali).
Si potrebbe però adottare anche qualche strategia alternativa, per esempio una filiera di piccoli impianti che sfruttino in modo combinato le qualità delle diverse specie vegetali utilizzate in una filiera che combini la fitodepurazione delle acque reflue con la produzione di bioenergia.

Filiera che combina la fitodepurazione delle acque reflue con la produzione di bioenergia.

In questa filiera si sfrutta inizialmente la capacità dell’Arundo donax di fitodepurare le acque reflue di piccoli insediamenti urbani o allevamenti zootecnici utilizzando l’azoto, il fosforo e gli altri elementi presenti nei reflui. Esperienze già in atto dimostrano infatti che questa pianta ha ottime potenzialità nella fitodepurazione.
La biomassa vegetale prodotta a sua volta può essere convertita in bioetanolo in piccoli impianti adiacenti il fitodepuratore. La produzione di bioetanolo si associa sempre obbligatoriamente alla produzione di CO2 (da una molecola di glucosio si ottengono infatti due molecole di etanolo e due di CO2). L’anidride carbonica prodotta non è liberata nell’atmosfera, ma è immessa in vasche per la coltura di microalghe che crescono a loro volta su acque reflue. L’olio prodotto dalle microalghe è convertito mediante transesterificazione in metilesteri di acidi grassi (diesel) e in glicerina (1 kg di glicerina ogni 9 kg di diesel) che può a questo punto essere reimmessa nelle colture algali e utilizzata dalle microalghe come substrato respiratorio (quindi come fonte di energia), come fanno tutti gli organismi non fotosintetici.
Il vantaggio è che in questo modo le microalghe non hanno più bisogno dell’energia solare per crescere, ma possono utilizzare questa stessa energia per produrre un altro vettore energetico, l’idrogeno. In fondo è come con il maiale: si usa tutto e non si butta via niente.

Conclusione

Tutto quanto detto suona a prima vista molto bene. Ecco la soluzione, tanti piccoli impianti a misura di poche aziende vicine, consorziate che non solo depurano le acque reflue con le piante, ma addirittura convertono la biomassa prodotta in energia in un ciclo che non spreca nulla.
Sembra fin troppo facile e in effetti è così perché, a parte la necessità di progredire nelle ricerche per migliorare l’efficienza di uso della luce da parte delle piante e delle alghe e la produzione di idrogeno utilizzando il glicerolo, ci si dimentica di qual è il vero fattore limitante nella produzione delle biomasse. Questo fattore è la disponibilità di acqua dato che per ogni molecola di CO2 catturata da una pianta si perdono tra 600 e 1000 molecole di acqua. Qui sta il vero problema: ci sarà abbastanza acqua per la produzione di biocarburanti e cibo?
Ecco la sfida di questo secolo: gestire responsabilmente la risorsa idrica.

Carlo Soave
(Ordinario di fisiologia vegetale presso l’Università degli Studi di Milano)

© Pubblicato sul n° 48 di Emmeciquadro







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