L’autore affronta tre aspetti del problema dell’attenzione a scuola.
Il primo, quello che viene definito «fisiologia dell’attenzione», chiede che ci si liberi dalla dittatura dei telefonini e degli altri media per incontrare «direttamente» la realtà che ci sta intorno.
Il secondo, quello di un’attenzione solo «puntuale» che, condizionata dall’abitudine allo zapping, si sposta in continuazione su oggetti diversi, esige una adeguata metodologia didattica.
Il terzo consiste nella necessità di trovare risposte coerenti con la domanda: in che modo restituire all’aula il suo peso specifico come luogo di educazione?
Sono grato per l’invito a contribuire alla riflessione sul problema della disattenzione.
Vorrei farlo, in prima battuta, formulando qualche osservazione sul contesto che fa oggi da cornice ai processi d’insegnamento e di apprendimento e ponendo qualche interrogativo.
Prima di arrivare a scuola
Condivido l’individuazione, proposta da Paola Balzarotti1 e Philippe Meirieu2, del segno più distintivo della crisi attuale nella distrazione endemica degli alunni e nella dittatura della reazione in tempo reale. In se stesse, e nel loro intreccio, queste disposizioni sembrano essere diventate i tratti dominanti dell’atteggiamento in classe dello studente, con tutte le gravi implicazioni evidenziate.
Perché accade così? In un precedente intervento su questa rivista3 avevo proposto un’istantanea della marcia mattutina di avvicinamento al posto di lavoro e alla scuola. Immaginavo un uomo che avesse dimenticato a casa il telefonino, e ciò nonostante si fosse coraggiosamente avventurato nella giornata; e una madre che accompagnava i figli a scuola, il grande con gli auricolari già calzati, il piccolo un po’ arrancante dietro il suo passo.
L’istantanea aveva lo scopo di rendere immediatamente visibile, da un lato, l’invasione tecnologica della vita ad opera di uno sconfinato, nei numeri e nelle forme, esercito di dispositivi; dall’altro, il fatto che la tecnica costituisce oggi un’interfaccia tra uomo e realtà capace d’indurre, quasi senza accorgersene, un’inversione del sentimento fondamentale dell’esistenza.
Portavo l’esempio dei black out nelle grandi città, che causano la paralisi quasi completa del vivere dominato dalle tecnologie; e accennavo, da una parte, al guadagno che la nudità tecnologica avrebbe comportato per l’adulto, offrendogli la possibilità di tornare a guardare con occhi più aperti e sollevati la realtà che l’aspettava lungo il tragitto e sul posto di lavoro; dall’altra, al probabile deficit nell’incontrare e nel conoscere le cose e gli eventi della giornata della mamma frettolosa e del ragazzo «a Y».
Ora, mi sembra che il problema dell’attenzione, a scuola, considerato anche in questa prospettiva, presenti alcuni profili che meritano approfondimento. Soprattutto tre.
La fisiologia dell’attenzione
Chiamerei il primo «fisiologia dell’attenzione». Vorrei indicare, con questa espressione, il ciclo vitale dell’energia psichica, in particolare attentiva, con cui l’insegnante, ma soprattutto lo studente, varcano la soglia della scuola e della classe e vi trascorrono la mattinata.
Dopo un certo lasso di tempo d’immersione in cuffiette e cellulari, prima del suono della campanella, a che livello scende il serbatoio della dotazione iniziale mattutina di questa energia, specie se non si è ancora ricorsi all’aiuto del caffè, del fumo o dei loro surrogati? E come si ricarica – se si ricarica… – durante il tempo-scuola?
[A sinistra: Prisciano o la grammatica – Campanile di Giotto a Firenze]
Quando non esistevano internet e telefonini, il tragitto da casa a scuola era occupato dal completamento del risveglio, dall’attenzione alla strada, ai compagni o ai colleghi che s’incontravano, dal pensiero di ciò che ci aspettava e, nel migliore dei casi, da un’occhiata alle vetrine o ai titoli dei giornali.
I processi psichici implicavano e attivavano in modo organico tutti e cinque i sensi, ovviamente con differenti polarizzazioni (penso alla luce delle stagioni, al peso della cartella, al profumo delle persone, alla calca, ai rumori e agli odori dei mezzi di trasporto…).
Una vasta gamma di sentimenti li accompagnava: l’attesa del volto amico, o caro, il timore dell’interrogazione, la curiosità di sapere cos’avrebbe riservato un’ora, la previsione della noia mortale di un’altra… Insomma, l’andare a scuola, proprio come fenomeno fisico e vitale, rappresentava una vera e propria ginnastica ad ampio spettro dei sensi e dell’intelligenza.
Ora, che cosa viene oggi attivato, e soprattutto esercitato, nella routine quotidiana, di tutta la gamma delle nostre disposizioni ed energie psichiche?
Che cosa, nel funzionamento basico della nostra sensibilità e della nostra intelligenza, è più esposto all’influsso del format di rapporto con il reale indotto dalla tecnologia?
Che effetti produce questo format sul funzionamento, sull’equilibrio, sulla fisiologia complessiva del nostro sentire, conoscere, agire?
Mi piacerebbe ascoltare, su questo punto, il contributo di un oculista, di un ortopedico, di un otorino, di un fisiatra, di un neurologo, di uno psicologo. Personalmente, parafrasando Gaber, credo ci sia «un’aria che manca l’aria». Perciò penso che, in materia di disattenzione, uno dei problemi da approfondire sia quello della compensazione o correzione della curvatura mediatica della postura quotidiana, oggi così diffusa (non solo nelle generazioni più giovani …), tramite un metodico esercizio, direi «fisioterapico», di percezione e di riconoscimento della significatività, già in sé, del semplice esserci e accadere delle cose.
Un esercizio metodico e paziente, anzi combattivo, perché deve contrastare una disposizione socialmente dominante: che consiste ogni mattina nel «spalancare le finestre» del nostro essere al reale nella sua viva e immediata concretezza, che sta al di là e primerea, direbbe papa Francesco, qualsiasi «interfaccia» si possa interporre.
Prima che contromisura pedagogico-didattica all’invasività della tecnologia, questo esercizio di postura mi sembra, sul piano sia intellettivo che esistenziale, un atto di giustizia elementare rispetto alla condizione umana tout court.
Che cosa succede quando entro in classe, vado alla cattedra e comincio a far lezione?
Introduco la seconda pista di approfondimento con la domanda di apertura del modulo di formazione che ho proposto, negli ultimi tre anni, agli insegnanti di scuola media e superiore, di tutte le discipline, impegnati nei PAS e nel TFA.
Un dato emerge con imponenza dalle loro risposte, fatta salva ogni diversità di contesto, di situazione, di temperamento: si accende una dinamica d’interazione, rispetto alla quale la prima frontiera di azione e di responsabilità del docente è la creazione di una efficace «piattaforma della comunicazione».
Ciò conferisce alla relazione fra insegnante e allievo una peculiare intonazione psicologica, che fa passare in secondo piano le altre dimensioni altrettanto costitutive – dal punto di vista culturale, istituzionale e personale – della relazione stessa.
[A destra: Euclide e Pitagora o la geometria e l’aritmetica – Campanile di Giotto a Firenze]
Ha sempre stupito molto i miei interlocutori l’osservazione che, quaranta o cinquant’anni fa, le cose non stavano così. Ciò che allora conferiva il timbro caratteristico al rapporto con il docente non era una corrispondenza o simpatia, quanto piuttosto l’autorevolezza della sua figura e la consapevolezza della dignità e del valore di ciò che era oggetto d’insegnamento. E questo anche nei momenti di più vivace messa in discussione dell’impianto della scuola e del suo ruolo nella società, come nel Sessantotto.
Che cosa c’entra tutto questo con il problema dell’attenzione in classe?
L’ampia analisi della disattenzione ha messo bene in luce la particolare puntualità dell’attenzione dello studente d’oggi – quasi del tutto «assorbita» ed «esaurita» dall’attimo in cui si desta. Se il fatto che essa continua a verificarsi è un dato senz’altro positivo, da tenere in conto e da cui partire, non ci si può nascondere la problematicità della sua limitazione alla reazione psichica immediata, senza alcuna continuità o sviluppo, come attestano il fenomeno dello zapping e la difficoltà a conservare l’attenzione nel momento discorsivo o argomentativo del lavoro in classe.
Ora, in questa situazione, che fare?
Certo, ed è la prima soluzione che viene in mente, si può ripensare e ridefinire l’insegnamento come professione «interattiva», il cui focus e la cui competenza cardine starebbero nella capacità di suscitare l’attenzione dell’alunno, di catturarla e di darle il più possibile continuità anche (ma non solo) attraverso le strumentazioni e le tecnologie, che presentano un forte appeal immediato e una notevole potenzialità di orientare e strutturare nel tempo l’attività psichica.
In questo modo si potrebbe ogni volta predisporre il migliore scaffolding all’apprendimento, avvalendosi di tutte le metodologie a ciò congruenti ed efficaci.
Se devo essere sincero, temo che questo tipo di cura finirà per peggiorare la malattia. Questa soluzione, infatti, a mio giudizio non si accorge – né le dà abbastanza credito – della rilevanza euristica ed educativa dell’attenzione dello studente, proprio nel momento e nella forma in cui, pur con tutta la sua intensità e brevità, si accende in classe, magari (non è da escludere) prendendo in contropiede le intenzioni o la programmazione del docente.
La rilevanza euristica ed educativa dell’accendersi dell’attenzione
Il limite di una visione sostanzialmente interattiva o interazionistico-procedurale dell’insegnamento, dell’apprendimento e della relazione educativa sta nel trattare la puntualità intrinseca dell’attenzione come un problema da risolvere, piuttosto che come un segno da leggere e da cui farsi interpellare. Detto con un’immagine: più che una bomba da disinnescare, questa puntualità è un processo di innesco e di fermentazione da assecondare, in cui inserirsi e al quale contribuire.
Ma per andare in questa direzione bisognerebbe aprirsi a una concezione dell’insegnamento come «professione riflessiva», nell’accezione introdotta dalle ricerche di Donald Alan Schön (1930 – 1997). Si dovrebbe, cioè, attribuire alla situazione che ogni volta viene a crearsi nell’ora di lezione, per la combinazione di fattori e di variabili oggi sempre meno prevedibili che in passato, un’originale e specifica valenza conoscitiva, alla quale il nostro agire deve prestare attenzione, che deve indagare in profondità e che deve prendere molto sul serio come punto di partenza della sua mossa successiva.
[A sinistra: Donald Alan Schön (1930 – 1997)]
Provo a spiegarmi con quanto mi è accaduto quest’anno. Ho tenuto un corso istituzionale, di base, di pedagogia generale (64 ore), a studenti del tutto digiuni di tale materia. Pensando alle performances più ricorrenti negli esami degli ultimi anni – risposte non più lunghe di qualche minuto, perlopiù nozionistiche; debolezza nell’istituire nessi e collegamenti fra autori, teorie, contesti – mi sono domandato se ciò non poteva dipendere, in qualche misura, anche dall’impostazione delle mie lezioni (prevalentemente sistematiche, per diverse ragioni), rispetto alle quali mi accorgevo che l’attenzione si distribuiva secondo una curva declinante, nonostante tutti gli ausili e il mio darmi da fare: pagine antologiche, slides, riepiloghi, eccetera.
Così ho deciso di cambiare l’impianto della didattica e di procedere induttivamente. Mi sono domandato che cosa era l’essenziale cui avrei dovuto introdurre e rendere attenti gli studenti, e sono partito proponendo ogni volta un testo, analizzandolo, commentandolo e problematizzandolo insieme con loro: un po’ come, fatte le debite proporzioni, nella lectio medievale.
Che cosa ne è uscito? Molto! In me e in loro.
Per prima cosa, una percezione «in presa diretta» del senso comune oggi diffuso circa l’educazione, che ha aperto la strada alla riflessione su ciò che viene più enfatizzato, o trascurato, di tale fenomeno. Poi la sollecitazione, specificamente per me, a scegliere con metodo, ma anche secondo uno schema aperto i passi più opportuni (cioè i testi da disporre in sequenza) per sviluppare un argomento, e poi passare dall’uno all’altro.
Quindi, e soprattutto, un’attenzione crescente nell’ora di lezione! Che ha assunto, negli studenti, diverse forme: un’acutezza, fresca e sorprendente, nella lettura e nel commento dei testi; una capacità di stabilire nessi e correlazioni significative, inizialmente timida, poi via via più rinfrancata e pertinente; una vivacità e non scontatezza nel porre domande – a volte, di grande portata.
Alla fine ci siamo ritrovati reciprocamente grati per il lavoro svolto, «accesi» nella volontà di approfondire determinati temi, su cui la riflessione non aveva potuto compiersi, e dispiaciuti che le ore a disposizione erano finite.
Ecco: se dovessi riassumere con un motto la disposizione sintetica e «riflessiva» che ha guidato il mio insegnamento, che mi ha atto guardare all’attenzione breve e puntuale degli studenti (di questi particolari e precisi studenti, che hanno formato con me la mia classe di quest’anno) come a una risorsa, e che ha reso le ore di lezione un’avventura conoscitiva, certo non senza limiti e fatiche, direi, con Alessandro Manzoni (1785 – 1873): «osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare».
Senza scuola che vita è?
E siamo alla terza pista di approfondimento, che introduco con un riferimento ancora al corso di pedagogia e al modulo PAS/TFA.
Nella prima lezione del corso ho chiesto agli studenti di rispondere per iscritto ad alcune domande. Una chiedeva: «Che differenza c’è, a tuo giudizio, fra un’aula di scuola o di università e gli altri luoghi dove trascorriamo la nostra esistenza quotidiana, dalla casa al quartiere agli altri ambienti di lavoro, di vita e di relazione?».
Le risposte si sono distribuite in due gruppi. Nel primo la differenza è stata tratteggiata con la coppia di concetti «formale» e «informale». Scuola e università sono luoghi formalmente deputati all’istruzione e alla formazione; processi che, però, avvengono anche, in modi diversi, in altri contesti.
Le risposte del secondo gruppo hanno differenziato in base all’incidenza delle «norme» e dei «costumi» sugli atteggiamenti individuali. In scuola e università vigono codici e regole di comportamento più rigide e definite che in altri ambienti; nella sfera privata prevalgono invece la libertà e la spontaneità.
Veniamo al modulo PAS/TFA. A un certo punto ho proiettato la diapositiva che aveva il compito di introdurre il tema della scuola come istituzione. La slide riproduceva il volantino di una ONLUS napoletana, che, all’insegna del motto «Senza scuola che vita è?», ha promosso una raccolta di fondi per costruirne una in una regione poverissima del Terzo Mondo.
Ho chiesto agli insegnanti di commentare la diapositiva, nell’immagine e nei contenuti. Solo in rari casi è stata proposta una correlazione del motto alla situazione italiana odierna, in particolare al dato statistico del numero crescente di studenti che avvertono la scuola come un luogo di noia, dove farebbero volentieri a meno di andare.
A questo punto abbiamo convenuto che la crisi della scuola è anzitutto una crisi dell’aula, perché è fra le sue quattro mura che prende forma, sia per il docente che per lo studente, l’esperienza di questa istituzione come ambito significativo di rapporti e di vita.
[A destra: Maria Zambrano (1904 – 1991)]
E allora è sorta la domanda: si può restituire all’aula – o conservarlo e incrementarlo, quando c’è – il suo peso specifico come luogo di educazione? Se sì, come?
Su questo punto ci ha molto aiutato una pagina, in cui Maria Zambrano parla delle aule scolastiche come di uno spazio originalmente vuoto, destinato a ciò che non si può fare in altri luoghi del vivere sociale – come il tempio, il foro, il mercato, la casa, la strada, il municipio e la corte.
Perciò ella qualifica l’aula come spazio «poetico», di creazione di uno spazio propriamente «umanizzato», in cui e in relazione al quale il sapere e l’agire, l’essere e il vivere, in una parola tutti i fenomeni che interessano la persona e la società possono manifestare – o riscoprire, qualora li abbiano dimenticati o perduti – la loro consistenza, il loro senso, il loro valore.
La «scuola moderna» sta finendo…
Qui mi sembra si delinei la terza pista di approfondimento del problema della disattenzione. E anche su questo punto può esserci di aiuto un’osservazione di contesto.
Credo si possa definire il frangente storico in cui stiamo vivendo come «la fine della scuola moderna». Con questa formula voglio sottolineare che il canone con cui l’epoca moderna ha concepito l’istruzione scolastica e le ha cucito addosso un abito istituzionale su misura è arrivato al capolinea della sua efficacia e fecondità storica.
Per un complesso di fattori e di cause, in cui non posso inoltrarmi, per l’istituzione scuola, presa nel suo insieme, il nostro è il tempo di una crisi e di una transizione di vaste proporzioni, mi verrebbe da dire anche senza precedenti. La comparsa di nuove tecnologie nell’insegnamento e nell’apprendimento non è che uno dei suoi punti critici – di solito enfatizzato oltre misura –, come se tutto il problema consistesse nella competizione fra libro cartaceo ed ebook, oppure nella sostituzione dei manuali e dei quaderni con le LIM e i tablet.
Un secondo snodo del cambiamento, anch’esso caricato spesso di un’enfasi decisamente unilaterale, è quello determinato dai processi migratori e dalla composizione multietnica della società contemporanea.
Ad ogni modo, crisi e transizione non possono non comportare inesorabilmente la fine del vantaggio di posizione di cui la scuola ha goduto, fino a un passato relativamente prossimo, rispetto agli altri ambiti della vita. Di qui anche, in forma perlopiù irriflessa, nelle generazioni più giovani, una specie di ritiro delle energie psichiche – compresa l’attenzione – dalle aule e dalla scuola medesima, per dislocarle in altri ambiti, più vivi e promettenti, come la sfera ludica o le reti della comunicazione social (penso all’uso che, più o meno sottobanco, lo studente fa oggi del cellulare in classe: appunto per giocare o per tenersi aggiornato su qualcuno dei proprio profili).
Che conseguenze può avere questa sorta di «ritirato credito» alla scuola come istituzione formalmente deputata all’istruzione?
Vorrei mettere in evidenza quella che, dal punto di vista pedagogico, mi sembra la più grave e delicata.
Riordinando le risposte alla domanda sullo «specifico» delle aule, sopra ricordata, ho dovuto constatare con amarezza che nessuna aveva giocato come criterio distintivo la coscienza del profilo e del valore culturale della scuola e dell’università, intese come luoghi in cui vive e si comunica, nel presente, tutta la ricchezza di umanità e di sapere che viene dal passato e che, con una parola, si chiama «tradizione». Gli unici due criteri adoperati sono stati quello funzionale e quello sociologico.
Ora, se le cose si riducono così, e se viene a mancare la consapevolezza che c’è stato, in passato, e c’è anche oggi, nella cultura e nella tradizione giunta fino a noi, qualcosa di grande e di superiore ai nostri tempi, ai nostri problemi, a ciò che desta anche in noi affanno o angoscia, risulta un po’ difficile chiedere agli studenti che, almeno per alcune ore della giornata, per alcuni giorni della settimana, per un certo numero di settimane all’anno investano la loro attenzione (e le altre loro energie) nella scoperta di quel patrimonio e di quella bellezza.
Difficile, anzitutto per noi insegnanti; in questo, purtroppo, non molto aiutati dalle altre componenti della generazione adulta.
Il punto di condensazione del problema
Concludo. Mi sembra che il problema dell’attenzione degli studenti in classe, oggi, vada istruito dentro un contesto di mentalità e di pensiero segnato dalla marcata curvatura mediatica della postura quotidiana del vivere, da una perdita di densità dell’esperienza – della quale si tende a percepire e registrare solo l’emergenza effimera – e da un indebolimento del senso della continuità del tempo e dello spazio, intesi come fenomeni non tanto fisici, quanto piuttosto propriamente «umani».
Di conseguenza, scuola e università, come specifiche istituzioni, faticano a comunicare in modo vivo allo studente la grandezza e la ricchezza del patrimonio del passato – come, pure, sarebbe loro compito. Una fatica resa ancora più grande dalla crisi storica e culturale del canone della «scuola moderna».
Di fronte a ciò, mi sembrerebbe molto urgente, come insegnanti, anche aiutandosi a reggere insieme la vastità della sfida, metter mano in prima persona da un lato a una tenace e coraggiosa «fisioterapia» dei sensi e dell’intelligenza, in noi e attorno a noi; dall’altro, all’esercizio di una ragione più capace di rapportarsi in presa diretta al reale, nella vivezza del suo accadere e nella ricchezza del suo divenire.
Una ragione più sensibile, più ampia e più comprensiva della ragione moderna e dei suoi schemi: in grado di prestare meglio attenzione alla realtà, all’esperienza e alla profondità di campo di entrambe.
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Carlo Fedeli
(Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione – Università di Torino)
Note
Paola Balzarotti, La disattenzione in classe, in: Emmeciquadro, n° 56 marzo 2015.
Philippe Meirieu, Nella scuola dedicare tempo al pensiero, in: Emmeciquadro, n° 57 giugno 2015.
Carlo Fedeli, , in: Emmeciquadro, n° 49 giugno 2013.
© Pubblicato sul n° 57 di Emmeciquadro