In questo contributo sono riportati ampi stralci di un articolo pubblicato sulla rivista Esprit in cui l’autore denuncia una scuola in preda alla disattenzione, nella quale sembra riprodursi quanto avviene nella fruizione televisiva, l’abitudine allo zapping.
Ripercorrere la via del coinvolgimento personale sul piano della conoscenza è il rimedio suggerito ai docenti per arginare una crisi che non è dovuta all’imposizione di un modello errato, ma che è di natura culturale con radici profonde di natura antropologica.
La questione dell’attenzione degli allievi in ambito scolastico, benché non sembri affatto mobilitare i ricercatori e sia piuttosto ampiamente ignorata nella formazione iniziale e in quella continua degli insegnanti, oggi appare chiaramente come uno dei maggiori problemi professionali degli attori della scuola.
In effetti è facile trovarne traccia nella maggior parte dei documenti e degli studi su «il malessere degli insegnanti» che denunciano, allo stesso tempo, una mancanza di riconoscimento sociale e un forte degrado delle condizioni di lavoro dei docenti della scuola primaria e della scuola secondaria.
La scuola in preda alla disattenzione
Certamente, l’accento è messo, più frequentemente, su situazioni-limite, collegate a contesti sociali degradati nei quali l’adesione alle regole scolastiche è particolarmente problematica […] o su conflitti sociali che mettono in pericolo la possibilità stessa della scolarizzazione […]. Ma ciò che appare chiaramente, quando si osserva l’insieme delle testimonianze oggi accessibili, è che la «crisi dell’insegnamento» non è più confinata a situazioni di malfunzionamento istituzionale e neppure deriva dalla speranza delusa della democratizzazione e dagli errori o dalle insufficienze dei successivi riformatori; essa riguarda la situazione scolastica in quanto tale, che si vede in qualche modo erosa, quando non svuotata della sua sostanza, da un insieme di comportamenti minuti ma devastanti.
Più nessuna classe in effetti – pur se goda delle migliori condizioni materiali e sociali – è risparmiata dalla crescita della disattenzione: l’insegnante non deve più solamente correggere le sbadataggini passeggere di qualche allievo distratto richiamandolo all’ordine, ma deve, in ogni istante, ricostruire un quadro di insieme che renda possibile la sua attività di comunicazione.
[A sinistra: Robert Doisneau (1912-1994) – Le cadran scolaire – Parigi, 1956]
Di fronte alla dispersione sistematica, alla frammentazione all’infinito delle attività degli allievi, alla sollecitazione permanente – esplicita o implicita – di ciascuno di essi, si fatica a costruire una situazione nella quale una parola – talvolta una semplice assegnazione di compito – possa essere intesa da tutti gli allievi.
La minaccia sulla scuola dunque non viene più, prevalentemente, da un rovesciamento brutale del modello, ma da una sorta di implosione di ciò che permetteva all’istituzione – all’insaputa degli stessi suoi attori – di perpetuarsi: la mobilitazione psichica dei soggetti che la frequentano sugli oggetti che essa propone loro. Nessuna distrazione d’altronde è attestata da parte di questi soggetti al punto che non si può affatto considerarli colpevoli e che nessuna sanzione ha veramente presa su di loro. Ed è così che il collasso dell’istituzione si accompagna al sentimento di impotenza da parte di coloro che sono tenuti a difenderla nel quotidiano; è così che le riforme strutturali, per quanto siano reclamate dalle organizzazioni professionali e dai partiti politici, sembrano cadere nel nulla, lasciando gli attori disarmati di fronte a degli allievi decisamente, e nel senso letterale, irraggiungibili.
Una analisi rapida potrebbe permettere di spiegare questo fenomeno come dovuto a una distanza sempre maggiore fra gli interessi degli studenti e i saperi scolastici. Non è certo che questo sia il fatto determinante.
Infatti, la modernità ha ravvicinato considerevolmente i saperi insegnati ai saperi sociali in circolazione: gli uni e gli altri, che una volta appartenevano a sfere che non comunicavano affatto, si collocano oggi in un continuum mediatico che dovrebbe, a rigore di logica, facilitare il passaggio dagli uni agli altri. Mai, in realtà, i programmi scolastici sono stati così vicini alle questioni sociali e mai l’istituzione scolastica ha avuto altrettanto a cuore di far apparire questa prossimità, così da farne la carta vincente, precisamente per «avvicinare la scuola alla vita».
I manuali scolastici di tutte la classi e di tutte le discipline attestano questo «avvicinamento»: non c’è una lezione che non sia corredata da una scritta o da una fotografia che ricordano che ciò che è insegnato rinvia proprio a «realtà» vissute o conosciute dagli allievi, al punto che qualche volta ci si potrebbe persino domandare se non è piuttosto l’assenza di ogni «esotismo» che è in questo caso smobilitante.
Ma questa stessa questione appare, anch’essa, irrisoria nei confronti delle difficoltà incontrate dagli insegnanti per mobilitare gli allievi, in modo duraturo, sui saperi: vicine o lontane, declinate secondo gli interessi dei ragazzi o in deliberata rottura con essi, finalizzate per un possibile utilizzo a breve termine o iscritte deliberatamente nel registro simbolico, le conoscenze proposte dalla scuola non sembrano affatto in grado di essere attrattori sufficienti per permettere questa «inversione della dispersione», […] che permette di fondare e di strutturare il progetto didattico.
Qualsiasi cosa tentino, gli insegnanti sembrano « sopraffatti» dai comportamenti incontrollabili dei loro allievi, dalla loro disattenzione permanente che persino la trovata più originale non riesce a recuperare per più di qualche secondo.
Al punto che lo stesso dibattito pedagogico tradizionale viene a trovarsi – disgraziatamente – delegittimato: così la questione di sapere se «occorre partire dagli interessi degli allievi», dalle loro preoccupazioni più concrete, o mobilitarli su delle sfide culturali forti che li strappano dal loro quotidiano, […] sembra completamente secondaria in una situazione dove, qualsiasi cosa accada, gli allievi non sono veramente presenti, occupandosi mentalmente di un gran numero di attività, non fissandosi che qualche istante sul lavoro proposto, non trattenendo – nel migliore dei casi – che qualche frammento disarticolato, sfuggendo ogni istante all’ingiunzione comunque ripetuta come un ritornello: «Ascoltatemi!».
Ciò non significa affatto che non si debba perseguire la riflessione sui programmi e sui contenuti scolastici, ma ciò significa, evidentemente, che non è sufficiente.
Crescita della disattenzione e cedimento dell’istituzione
Facciamo l’ipotesi che la situazione che viviamo rinvii a un doppio fenomeno «a forbice»: da una parte una realtà sociale costituita da un cambiamento profondo delle posture psichiche degli allievi e, dall’altra parte, un cedimento, in certi casi una scomparsa, delle strutture scolastiche che permettono precisamente di formare e sostenere l’attenzione degli stessi allievi.
Avevo studiato, più di venticinque anni fa, le differenze di percezione, da parte degli allievi dell’ultimo anno della primaria, di uno stesso film, a seconda che lo vedessero al cinema, in una sala buia in cui la loro attenzione era focalizzata sullo schermo, o alla televisione, a casa loro, in una stanza con la luce, dove erano sollecitati da un gran numero di altre attività sociali. Il risultato era particolarmente probante: nel primo caso, la maggior parte degli allievi poteva riportare la trama narrativa del film e coglierne la continuità simbolica; nel secondo, la maggior parte non riusciva che a evocare alcune scene che colpivano, senza riuscire a collegarle.
[A destra: Robert Doisneau (1912-1994) – Une salle de classe, 1957]
Qualche anno più tardi ho condotto uno studio sull’utilizzo del telecomando e sul modo in cui modificava fondamentalmente il rapporto con lo schermo televisivo. Riassumevo così le mie osservazioni: «Il telecomando riunisce quattro principi che, che combinati tra loro, costituiscono una affermazione dell’onnipotenza infantile, in una forma tecnicamente banalizzata e socialmente accettabile: il principio della miniaturizzazione ludica, il principio della connessione diretta del soggetto con il mondo, il principio del passaggio immediato all’azione, il principio della sovrapposizione totale dell’immagine con la realtà. In fin dei conti, non è impossibile che, pur costituendo un progresso scientifico notevole che può efficacemente aiutare le condizioni di vita di numerose persone (in particolare disabili), il telecomando sia anche portatore, dal momento che è stato innalzato come un totem dagli utilizzatori dei media, di una regressione psicologica individuale e collettiva verso l’infantile».
Grazie a quello che allora chiamavo phallus high-tech, i bambini e gli adolescenti dispongono, in effetti, di un utensile tecnologico il cui impatto sul loro comportamento psichico può diventare particolarmente preoccupante: […] essi prendono l’abitudine di sottomettere la loro attenzione al fascino del programma, delegando, in qualche modo, a quest’ultimo la decisione del loro prestare attenzione.
Allora io scrivevo: «Lo zapping acquista così una caratteristica molto particolare, il potere di comandare a un oggetto da cui simultaneamente ci si emancipa. Esso permette di combinare l’agitazione interiore, lo sviluppo di attività di ogni tipo e, nello stesso tempo, il controllo più stretto sulla “macchina per vedere”».
[…]
Inutile insistere sul fatto che, in questo contesto, il docente non può competere con le «industrie del programma» (cioè le tecniche con cui chi costruisce programmi televisivi cattura e mantiene l’attenzione dello spettatore). Tanto più che questa evoluzione si colloca nel quadro di una mutazione antropologica che legittima e contribuisce allo sviluppo dell’iper-attenzione pulsionale a scapito dell’attenzione volontaria e profonda. In effetti […] i luoghi del piacere e della sofferenza si sono scambiati: un tempo il corpo è stato il luogo della sofferenza mentre il pensiero era, almeno per qualcuno, quello della possibilità di una elevazione, la sorgente di soddisfazioni spirituali e di promozione personale.
Orbene, oggi, l’esercizio del pensiero è percepito, in particolare da una gran parte dei bambini e degli adolescenti, come una sorgente di sofferenza, mentre il corpo in quanto tale e le sue molteplici protesi tecnologiche è il luogo di tutti i godimenti possibili, naturali e artificiali.
[…]
L’educatore alle prese con l’attenzione
Così – e malgrado la fatica di Sisifo di numerosi insegnanti e responsabili dell’educazione – una gran parte dei nostri allievi, con il telecomando innestato nel cervello, vaga in spazi indifferenziati, senza mai fissare la sua attenzione abbastanza a lungo.
[…]
[A sinistra: Foto di Robert Doisneau (1912 – 1994)]
Certamente, poiché la scolarità resta obbligatoria fino a sedici anni, occorrerà trovare soluzioni accettabili: esse si chiamano indirizzo verso classi speciali, strutture di sostegno o di accompagnamento, pubbliche o private, e sicuramente, molto presto, cure mediche più o meno intense. La scuola – sotto la copertura della personalizzazione – sviluppa così un funzionamento centrifugo, creando al suo centro una depressione – essenzialmente occupata da attività di valutazione – e spedendo via via più lontano quelli che non sanno già fare quello che essa è tenuta a insegnare loro.
Resta la difficile via della pedagogia.
[…]
Il pedagogo, in effetti, non può fare niente agendo direttamente sul soggetto: nessun educatore può costringere chicchessia ad apprendere o a essere attento, a meno di non costituire proprio con l’attenzione dell’altro un rapporto di soggezione, radicalmente incompatibile con il necessario impegno di una volontà e la mobilitazione intellettuale richiesta per appropriarsi di un sapere.
È per questo che il maestro non può, ma soprattutto non deve, far concorrenza ai media nell’attrazione psichica dei suoi allievi: egli deve, al contrario, formarli all’esercizio libero dell’attenzione e, dunque, alla resistenza a ogni forma di attrazione. Ma, se il pedagogo non può agire direttamente sulla coscienza dell’allievo e «mettere in moto» la sua attenzione, egli deve «fare tutto» […], per rendere possibile l’investimento deliberato del soggetto su un oggetto di sapere.
Strumenti pedagogici e formazione dell’attenzione
Quando si guarda attentamente il termine «attenzione» del Dictionnaire de pédagogie e d’instrution primaire di Ferdinand Buisson comparso nel 1878, a cura di Michel Bréal, lo si trova definito come «la direzione di tutte le forze intellettuali su un solo oggetto»: l’allievo attento deve «tendere tutte le sue facoltà» per ascoltare una consegna, leggere un testo o eseguire un compito e, per questo, «gli appelli reiterati all’attenzione non sono sufficienti».
L’insegnante è dunque invitato a individuare i segni di disattenzione, ma a non affannarsi, nonostante ciò, a denunciarli: «l’orecchio degli allievi si abitua in fretta agli scoppi di voce, che da questo momento, non servono a niente». In alternativa, deve dare spazio a un insieme di rituali pedagogici che scandiscono il percorso della classe e permettono di identificare in modo preciso, per ciascuna tappa, il comportamento atteso: «Le domande devono essere indirizzate a tutta la classe: così l’insegnante farà sempre per prima cosa la domanda, poi lascerà la pausa necessaria per trovare la risposta, ed è allora che farà il nome dell’allievo che deve rispondere». Non si dirà mai abbastanza – in particolare ai docenti di oggi che temono che un’istante di silenzio rompa l’attenzione – fino a che punto questa «pausa» è decisiva per permettere l’emergenza del pensiero.
Nella organizzazione delle attività stesse, Bréal invita a riflettere sul modo migliore di favorire la mobilitazione; egli ribalta così un certo numero di evidenze: «Si comincerà con l’esercizio più difficile e si concluderà con quello che richiede lo sforzo minore», così che l’allievo non consumi la sua attenzione su questioni di scarso rilievo, e che, allo stesso tempo, quando non è ancora stanco, si concentri su problemi di cui percepisce l’importanza.
Infine Bréal sottolinea che l’attenzione dell’allievo si mobiliterà tanto più facilmente quanto più «l’insegnante è personalmente coinvolto, perché la propria indifferenza avrebbe inevitabilmente come conseguenza quella degli allievi: egli riscoprirà, nello stesso istante, per quanto è possibile, in collaborazione con i suoi allievi, le regole del calcolo e della grammatica che sta loro insegnando».
Come dire in modo migliore che l’attenzione non è un è questione di costrizione, ma di attivazione dei desideri di apprendere e di compartecipazione del piacere di comprendere?
Come sottolineare meglio che è proprio il rapporto che l’insegnante tiene con il sapere che costituisce il punto di appoggio che fonda l’attenzione dell’altro?
Perché, è proprio qui, in ciò che si gioca per il docente stesso, quando si fa ricercatore «di» e «dentro» i propri saperi, che l’allievo scorge che il sapere è un’avventura dalle molteplici possibili soddisfazioni, e che essa richiede un impegno e uno sforzo, che comportano, alla fine, più soddisfazioni di quanto non sia il sacrificio momentaneo.
È in questo incontro che si origina l’attenzione profonda, quella che permette di evitare sia la disattenzione sia […] «l’attenzione legata», quella che «paralizza la mente (coma fa sempre la sorpresa o lo sbigottimento)», quando lo sbalordimento blocca la riflessione.
[…]
Riguardo più precisamente all’attenzione, Lev Vygotsky [in: Pensiero e Linguaggio – n.d.r.] mostra che essa esiste prima come «funzione elementare» – in conseguenza di una maturazione organica – e che essa deve costituire l’oggetto di un lavoro educativo specifico al fine di costituirsi come «funzione psichica superiore»: per questo, conviene fornire al soggetto un sostegno sul quale dovrà in un primo tempo appoggiarsi al fine di pervenire, in un secondo tempo, alla padronanza della sua attività di attenzione.
[A destra: Foto di Robert Doisneau, 1956]
Il bambino, infatti, ha bisogno di mediazioni strutturate che egli integra progressivamente e che gli permettono di agire su se stesso: egli trasforma così le risorse del contesto in strumenti psicologici in un processo di controllo e di conquista dell’autonomia dove il ruolo degli educatori e delle situazioni di apprendimento con cui è messo a confronto è assolutamente determinante. Vygotsky insiste, a questo proposito, sul ruolo essenziale dei «segni» (simboli, schemi, liste, piantine, eccetera) e sottolinea l’importanza del linguaggio dell’adulto, mediazione decisiva sulla quale il bambino può appoggiarsi per sviluppare la propria attività psichica.
Secondo questa concezione, si deve dunque interrogare ogni pedagogia sulla «consistenza linguistica » di cui essa fa prova. Occorre infatti che il linguaggio del docente non si dissolva nella chiacchiera – sia pure benevola – ma proponga sostegni abbastanza rilevanti e solidi, precisi e insieme comprensibili, perché l’allievo ne abbia una percezione stabile, sulla quale appoggiare la propria attività psichica.
Che il docente abbia un linguaggio strutturato, che eviti ogni confusione e ogni approssimazione, che utilizzi unità semantiche distinte e perfettamente assimilabili, che eviti le ingiunzioni ripetitive senza conseguenze come i richiami individuali sistematici: ecco cos’è il minimo per colui il cui mestiere impone, più che ogni altro, di sapere «che cosa vuol dire parlare».
Di qui l’assoluta necessità di collocare la formazione alla «consistenza linguistica» al centro di ogni formazione iniziale e continua degli educatori e, in particolare, degli insegnanti. Come quella di addestrarli a costruire situazioni che permettano agli allievi di sviluppare progressivamente la loro attenzione al fine di potersi implicare in apprendimenti e attività intellettuali di lungo respiro.
Nell’ambito di questo contributo, io posso soltanto abbozzare rapidamente un «programma» in cinque punti che dovrebbe essere declinato nell’insieme delle discipline e per tutti i livelli di insegnamento.
L’attenzione deve essere infatti: mobilitata (per questi ci si può appoggiare su quella che […] è chiamata «l’attenzione affettiva»); focalizzata (occorre passare progressivamente dal «grand’angolo» allo «zoom»); sostenuta nella durata (per mezzo di una attività che coinvolge il soggetto); accompagnata per pervenire all’astrazione manipolando enti simbolici (è il «salto qualitativo» determinante al quale il soggetto perviene quando scopre il potere dei concetti, dei modelli e delle teorie); orientata alla riflessione (quando l’attenzione prende coscienza di se stessa e il soggetto regola volontariamente la sua attività in funzione dei risultati che vuole ottenere.
[…]
Dedicare tempo al pensiero
La pedagogia appare così, lungi dalle caricature che se ne possono fare, come un mezzo prezioso di resistenza alla disattenzione e alla futilità sistematiche. Essa può attrezzare la scuola ad assumere qui, senza il minimo complesso, la sua funzione termostatica: in una società che fa dell’accelerazione una virtù, essa deve fare della decelerazione un principio.
Di fronte alla dittatura della «reazione in tempo reale» – che, precisamente, abolisce ogni intervallo temporale -, essa deve imporre una sospensiva al passaggio all’azione, e offrire tempo per pensare. In un mondo su cui incombe la dispersione permanente e un crescendo degli effetti, essa deve fare intravvedere il piacere dell’accesso al simbolico, la gioia del pensiero e la felicità della creazione.
Quando, ovunque la si esorta a frammentare i propri programmi in competenze tecniche riproducibili per passare sotto le forche caudine della possibilità di impiego, essa deve mantenersi ferma sugli obiettivi culturali degli apprendimenti, sulla loro funzione insieme di accesso alle opere dell’ingegno e all’attenzione volontaria.
Contro l’utilitarismo dei saperi scolastici e la esternalità delle attività artistiche, essa deve fare dell’educazione artistica e culturale una priorità assoluta per sviluppare l’attenzione profonda e permettere agli allievi e alle allieve di passare da un permanente gesticolare all’intenzionalità del gesto.
Sfide più importanti che impongono un sussulto pedagogico nel cuore dell’azione educativa, ben al di là delle riforme istituzionali che, anche quando appaiono necessarie da un punto di vista politico e sociale, si rivelano oggi antropologicamente irrisorie.
Philippe Meirieu
(Ricercatore in Pedagogia – Scienze dell’educazione, presso l’Université Lumière – Lyon 2)
Traduzione di Lorenzo Mazzoni.
Il testo integrale in lingua francese è reperibile in: Esprit, n. 401, gennaio 2014, http://www.meirieu.com/ARTICLES/esprit-attention.pdf
© Pubblicato sul n° 57 di Emmeciquadro