Scoperta e riscoperta della eccitabilità elettrica animale
Gli animali, ma potremmo estendere la considerazione a tutti i viventi, sono dotati della proprietà fondamentale di rispondere a stimoli di diversa natura provenienti dall’ambiente interno a essi o da quello esterno con impulsi elettrici singoli o ripetuti, risposte che stanno alla base delle loro principali funzioni. Che si tratti di un paramecio che, urtata una foglia, cambia direzione di nuoto, di un’alga filamentosa che, beccata da un’anatra, induce la gelificazione del citoplasma per evitarne la perdita, di motoneuroni che attivano i muscoli della palpebra e mi fanno «schiacciare l’occhio», o di una cellula del nervo uditivo, attivata da una cellula cigliata dell’orecchio interno, che vibra al suono del violino di mia figlia, in tutti i casi una forma di energia è trasdotta, a livello cellulare, in un evento elettrico transitorio.
Per la verità esistono anche cellule che si sono specializzate a emettere impulsi elettrici ripetuti spontaneamente, anche se non stimolate, e a costituire quindi dei veri e propri orologi interni all’organismo, essendo la loro frequenza di emissione costante in condizioni fisiologiche. Sono le cosiddette cellule pacemaker che sganciano, per così dire, il tempo scandito per le loro funzioni, dagli orologi biologici che battono coi giorni, le stagioni, gli astri.
Che alla base della attività motoria e nervosa animale vi fossero fenomeni elettrici era già noto agli studiosi della seconda metà del XVIII secolo. Fino ad allora, una prestigiosa scuola di fisiologi, primo fra tutti Albrecht Von Haller (1708-1777) dell’Università di Berna, insieme con Leopoldo Caldani (1725-1813) dell’Università di Padova, riteneva che il meccanismo fosse riconducibile a una «irritabilità» latente nei tessuti animali, una sorta di energia potenziale che, in particolari condizioni, si liberava e generava movimento o impulsi nervosi1.
In quel periodo cominciarono tuttavia a comparire, sui banconi di lavoro di anatomisti e fisiologi, curiosi apparecchi atti a generare carica elettrica e, letteralmente, a imbottigliarla in recipienti (le bottiglie di Leida) che la rendevano a lungo disponibile per la sperimentazione. Da qui in poi la scoperta, e, come vedremo, la riscoperta della attività elettrica animale nasceva e procedeva di pari passo con la scienza dell’elettrologia prima e, più tardi, dell’elettronica e dell’informatica. L’intreccio con la fisica e la tecnica dell’elettricità è quindi costitutivo dell’elettrofisiologia e tesse il filo conduttore di una storia scientifica, controversa al suo inizio, ma per certi versi unica ed affascinante.
La rilettura di questa storia consente di far bene emergere il travaglio che accompagna il tentativo di utilizzare il metodo scientifico nella scienza della vita, intrinsecamente complessa quest’ultima e meravigliosamente qualitativa. Come nel seguente brano, Loligo media di Jünger: «Mi comparve dinanzi trasformato in un piatto di anelli delicatamente rosolati nell’olio, presso i quali era posata la testa dalle dieci braccia simile alla chiusa fioritura di un giglio di mare o al frammento di una figuretta mitologica. Quel che subito avevo intuito si confermò: l’armonia segreta che si nasconde in tutte le qualità di un essere diveniva palese anche al senso del gusto, ed anche se avessi mangiato con gli occhi bendati mi sarebbe stato possibile collocare nel sistema zoologico, con sufficiente sicurezza, l’origine di quel boccone» (E. Jünger, Il cuore avventuroso).
Il metodo
Col rischio di suonare grossolano agli epistemologi e incompleto agli storici della scienza, ritengo qui utile, prima di proseguire, richiamare le quattro fasi essenziali del metodo scientifico cosiddetto moderno, che:
Procede dal dato o misura del fenomeno,
Prosegue con l’induzione o formulazione di un’ipotesi/teoria che lo spieghi,
Quindi deduce dalla teoria, assumendola vera, delle attese conseguenti alla natura ipotizzata del fenomeno
Confronta infine le attese con i dati di partenza e con nuovi dati, al fine di testare la bontà della teoria formulata.
Questa può essere vera o falsa a seconda della sua capacità di spiegare il fenomeno di partenza e di predirne altri non contemplati inizialmente. Una teoria può quindi essere dimostrata errata. Una teoria corretta rimane tale finché resiste al confronto, continuo nella pratica scientifica, con la realtà che descrive. Cartesio schematizzava il procedimento nella sequenza: evidenza, analisi, sintesi, enumerazione2.
La storia della scoperta e ri-scoperta dell’elettricità animale fornisce un esempio di questo cammino conoscitivo in cui l’eccitabilità elettrica cellulare è il dato osservato e misurato e la teoria dell’eccitabilità di Hodgkin-Huxley (HH), il modello interpretativo fornito.
Esso ha resistito alla ridefinizione molecolare del problema in anni più recenti e continua a informare la ricerca fisiologica, biomatematica e bioingegneristica che su di esso si basano; altri modelli sono stati formulati nel frattempo per includere nell’interpretazione dettagli statistico-molecolari che tuttavia non ne modificano la validità macroscopica. Non è certo raro, nello studio della natura, utilizzare strumenti o modelli interpretativi coerenti ma diversi a seconda della scala spazio-temporale studiata.
La controversia Galvani-Volta
Ma torniamo all’elettricità animale e all’inizio della sua storia. È nella seconda metà del Settecento, come si diceva, che Luigi Galvani (1737-1798), anatomista dell’Università di Bologna, conduceva i suoi esperimenti su un preparato, molto utilizzato al tempo, costituito dalle zampe posteriori di una rana da cui era stato rimosso il resto del corpo lasciando scoperta la colonna vertebrale e, in particolare, i nervi crurali che innervano appunto gli arti inferiori dell’anfibio.
Galvani si accorse, tra l’altro, che, quando gli estremi di un archetto bimetallico (rame-zinco) venivano posti in modo che toccassero rispettivamente uno dei nervi crurali e il muscolo spellato della zampa, nel momento in cui si realizzava il contatto il muscolo si contraeva.
Concluse allora che, all’interno di nervi e muscoli, dovesse essere immagazzinata una carica elettrica, qualcosa di simile alla irritabilità degli halleriani (fisiologi della scuola di Albrecht Von Haller, si veda il paragrafo introduttivo), che l’arco bimetallico ne consentisse la mobilizzazione e, con essa, l’eccitazione del nervo e la contrazione del muscolo.
Il meccanismo dettagliato del fenomeno era di là dall’essere spiegato ma il principio sembrava chiaro. Il fatto poi che occorresse un archetto bimetallico per avere la stimolazione e che un solo metallo non la inducesse non fu inizialmente spiegato da Galvani. Un’idea a riguardo l’aveva un suo collega fisico di poco più giovane, Alessandro Volta (1745-1827) dell’Università di Pavia. Non solo Volta aveva una spiegazione per la bi-metallicità, ma riteneva che questa di fatto spiegasse anche tutto il resto.
In quegli anni Volta lavorava alla sua scoperta rivoluzionaria: dischi di metalli diversi (il rame e lo zinco andavano benissimo), impilati alternatamente con delle garze acide, generavano differenze di potenziale elettrico (misurato da allora in Volt) alle estremità della pila in modo che, se queste venivano messe in contatto tramite un conduttore, in quest’ultimo scorreva corrente elettrica.
La spiegazione di Volta smontava il discorso di Galvani sulla elettricità animale, già pubblicato nel frattempo 3, 4, fornendo una spiegazione in qualche modo opposta: la forza elettrica, lungi dall’essere immagazzinata nell’animale, era tutta esterna ad esso, proveniva dalla pila. Quest’ultima avrebbe presto letteralmente rivoluzionato il mondo della scienza e della società e questo successo «mondano» fu forse, anche se solo in parte, responsabile della vittoria conseguita in quegli anni da Volta nella controversia sviluppatasi col suo collega bolognese. Volta non entrava, in un primo tempo, nel merito del meccanismo della contrazione del muscolo ma affermava senza dubbio che questa avveniva utilizzando una energia esterna a esso.
La controversia fu in realtà più vasta di quanto riportato qui, gli esperimenti in gioco furono molteplici e un resoconto dettagliato si può trovare in lavori che, di volta in volta, ne colgono più gli aspetti fisico-filosofici5, epistemologici6 o filosofici7. Rimane il fatto che, a distanza di più di due secoli, molti testi scientifici, soprattutto quelli per le scuole secondarie, presentano ancora l’argomentare di Volta come quello corretto e la spiegazione di Galvani come quella errata, quando invece il contrario è stato dimostrato e ri-dimostrato almeno due volte negli ultimi settanta anni. Prima di proseguire con la storia, è utile fare una breve digressione sul suo protagonista principale: il singolo evento dell’eccitabilità elettrica cellulare, il potenziale d’azione.
Strutture dissipative e cellule eccitabili
Più di un testo di biofisica o fisiologia cellulare introduce la cellula come un sistema dissipativo. La dinamica dei sistemi dissipativi è stata introdotta dal chimico russo e premio Nobel Ilya Prigogine (1917-2003) negli anni Sessanta del secolo scorso8.
Un sistema dissipativo scambia energia con l’ambiente esterno col quale si pone in condizione di non-equilibrio, consentendo così la formazione locale di strutture ordinate e complesse. Un requisito essenziale dell’attività elettrica cellulare è la polarizzazione elettrica di membrana, il fatto cioè che vi sia, in qualsiasi cellula, una differenza di potenziale elettrico tra l’esterno e l’interno del doppio strato fosfolipidico che delimita la cellula.
Questa differenza di potenziale risulta dalla complessa combinazione di equilibri elettrochimici conseguenti sia alla permeabilità selettiva della membrana a diverse specie ioniche sia al fatto che queste ultime sono differentemente concentrate fuori e dentro la cellula. In ultima analisi è il gradiente di concentrazione ionica trans-membranario che mantiene la cellula lontana dall’equilibrio, che ne fa una struttura dissipativa, elettricamente carica.
Anni fa ebbi occasione di incontrare uno dei padri della elettrofisiologia cellulare moderna, il fisiologo belga Edward Carmeliet. Il discorso andò sulla questione della evoluzione della eccitabilità. Mi colpì, tra l’altro, l’enfasi con cui egli individuava, al riguardo, il passaggio evolutivo fondamentale nella comparsa di un sistema in grado di accoppiare il metabolismo con la polarizzazione elettrica di membrana. Tale sistema è costituito dalle pompe ioniche ATP-asiche di membrana, enzimi che utilizzano l’energia associata all’idrolisi dell’ATP per trasportare attraverso la membrana cellulare molecole o ioni da dove questi sono meno concentrati a dove sono più concentrati, per generare cioè e mantenere gradienti ionici trans-membranari: la macchina metabolica cellulare, in altre parole, separata dall’ambiente esterno grazie alla membrana, fornisce l’energia per mantenere tale interfaccia elettricamente carica.
Di solito la polarità di membrana risulta in una differenza di potenziale negativa di qualche decina di millivolt. Una classe particolare di cellule, quelle eccitabili, ha sviluppato la capacità di generare una rapida escursione temporale di tale potenziale in risposta a stimoli di varia natura per dar luogo al cosiddetto potenziale d’azione.
Questo può variare molto a seconda dei tipi cellulari ma consiste sempre in una fase di innesco, che richiede che il potenziale di membrana raggiunga un certo valore soglia (depolarizzato di qualche millivolt rispetto a quello di riposo), una rapida depolarizzazione iniziale fino al valore zero di potenziale, una transitoria inversione di polarità e quindi una più lenta ripolarizzazione fino al potenziale di riposo.
L’innesco iniziale può venire da diversi tipi di stimoli che si risolvono però tutti in un flusso trans-membranario di corrente ionica che depolarizza la cellula fino alla soglia. Il potenziale d’azione funziona come un interruttore, in modo tutto-o-nulla: o lo stimolo depolarizza la membrana fino alla soglia e lo innesca o non produce risposta. Quando innescato, la sua dinamica è determinata dalla voltaggio- e tempo- dipendenza della conduttanza elettrica di particolari proteine di membrana, i canali ionici, selettivamente permeabili a specie ioniche che, fluendo attraverso la membrana, tendono di volta in volta a imporle il potenziale elettrochimico a esse associato. Il suo decorso temporale può avere forme e durate molto diverse nei diversi tipi cellulari. Un potenziale d’azione nervoso dura circa 2 ms, uno muscolo-scheletrico 3-5 ms, uno cardiaco qualche centinaio di ms. Esistono cellule eccitabili vegetali in cui il potenziale d’azione ha durate di minuti o ore!
L’eccitabilità cellulare ha inoltre un significato funzionale specifico a seconda delle cellule in cui si manifesta. Nelle cellule nervose le informazioni relative alla intensità dello stimolo vengono tradotte nella frequenza di scarica di sequenze di potenziali d’azione consecutivi, nelle cellule muscolari il potenziale d’azione funziona da segnale di inizio della contrazione, in alcuni protisti (organismi microscopici unicellulari) l’eccitabilità di membrana regola la direzione di «remata» delle ciglia esterne e ne controlla quindi gli spostamenti; sulla superficie fogliare inferiore delle piante, cellule eccitabili specializzate regolano l’apertura e chiusura degli stomi che consentono gli scambi di acqua e anidride carbonica.
Potenziali d’azione sono stati misurati recentemente in diatomee marine (meravigliose alghe unicellulari rivestite da un guscio siliceo) e in alcuni batteri, nei quali tuttavia il ruolo dell’eccitabilità non è ancora stato chiarito.
Hodgkin e Huxley e la teoria dell’eccitabilità cellulare
Ma ritorniamo alla storia. A partire dalla controversia Galvani-Volta, durante tutto il XIX secolo e l’inizio del XX secolo si susseguirono intensi gli studi sul meccanismo alla base della attività elettrica nervosa e muscolare. Il fisiologo tedesco Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) per primo misurò un potenziale d’azione nel 1848, il suo collega Julius Bernstein (1839-1917) formulò l’ipotesi, discussa nel paragrafo precedente, dell’origine elettrochimica del potenziale di membrana nel 1902.
La svolta decisiva avvenne verso la fine degli anni quaranta quando due fisiologi inglesi, entrambi provenienti da studi di storia naturale, fisica e matematica presso l’Università di Cambridge, Alan Hodgkin (1914-1998) e Andrew Huxley (1917-2012), si trovarono a lavorare su un fortunato preparato sperimentale che avrebbe poi fatto la storia della elettrofisiologia, un po’ come la «mezza-rana» di Galvani: l’assone gigante del calamaro (Loligo). È questo il prolungamento filiforme (assone) del corpo cellulare di un neurone che scorre sotto il mantello del cefalopode, e la cui lunghezza (qualche cm) e diametro (quasi un mm) ne rendono particolarmente agevole la manipolazione; vi si potevano facilmente inserire elettrodi per misurare, per esempio, il potenziale di membrana e le concentrazioni ioniche.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale e il coinvolgimento dell’Inghilterra nel conflitto interruppe da un lato l’attività di ricerca di Hodgkin e Huxley, dall’altro li coinvolse entrambi in ricerche sullo sviluppo di radar aerotrasportati che portarono alla introduzione di uno strumento che avrebbe rivoluzionato la storia della conoscenza della elettricità animale: l’amplificatore differenziale, circuito che confronta i valori di potenziale elettrico ai suoi due ingressi e restituisce un segnale uguale alla loro differenza moltiplicata per un certo numero maggiore di uno.
Tramite combinazione di amplificatori differenziali si arrivò presto, subito dopo la fine del conflitto mondiale, alla realizzazione del circuito di voltage clamp9. Quest’ultimo, congiuntamente all’utilizzo di micro-pipette di vetro dalla punta sottilissima e contenenti l’elettrodo, consentiva finalmente ai fisiologi di misurare le correnti ioniche che scorrono, a un dato valore del potenziale fissato dall’operatore, attraverso la membrana, scoprire che l’iniziale depolarizzazione rapida del potenziale d’azione era dovuta a un ingresso auto-rigenerativo (più ioni entrano, più la membrana depolarizza e la depolarizzazione, a sua volta, aumenta ulteriormente l’ingresso di ioni) di ioni sodio, mentre la fase di ripolarizzazione era dovuta all’uscita di ioni potassio.
Il ruolo e la dinamica di queste correnti ioniche nel generare il potenziale d’azione venne chiarito da Hodgkin e Huxley con un serie di eleganti esperimenti di voltage clamp. Essi fecero tuttavia molto di più che registrare e interpretare i dati sperimentali. Assimilarono la membrana eccitabile a un circuito RC (dove R è la resistenza elettrica corrispondente alla combinazione in parallelo delle varie conduttanze ioniche e C la capacità elettrica del doppio strato fosfolipidico) di cui potevano scrivere l’equazione risolutiva. Questa risultava complicata dal fatto che le conduttanze ioniche coinvolte erano voltaggio- e tempo- dipendenti.
La loro dipendenza veniva ulteriormente ipotizzata dai due fisiologi come ascrivibile a variazioni di permeabilità obbedienti a una cinetica del primo ordine. Il tutto risultava in un sistema di equazioni differenziali ordinarie (quella del circuito e quelle cinetiche di transizione chiuso-aperto delle permeabilità al sodio e al potassio) che, per essere completato, richiedeva la definizione di parametri numerici; Hodkin e Huxley ricavarono tali parametri dai loro esperimenti di voltage clamp.
Si trattava di bloccare, di volta in volta, con veleni specifici la permeabilità della membrana al flusso del sodio e misurare le caratteristiche della corrente di potassio ai vari potenziali di membrana, quindi bloccare la permeabilità al potassio e misurare le caratteristiche della corrente di sodio agli stessi valori di potenziale. Il sistema venne così completato e risolto numericamente (con i computer dell’epoca ci volle più di una settimana per simulare qualche millisecondo di attività elettrica di membrana), e restituì come soluzione il decorso temporale del potenziale di membrana durante l’eccitazione elettrica e delle correnti ioniche a esso sottese.
Il primo coincideva identicamente col potenziale d’azione registrato sperimentalmente: il modello era corretto, riproduceva e spiegava il fenomeno. Le correnti ioniche ricostruite numericamente all’interno della stessa simulazione fornivano per la prima volta il meccanismo ionico dettagliato responsabile della eccitabilità di membrana. La scoperta fu pubblicata in due articoli storici usciti su Journal of Physiology nel 1952 10, 11; per essa Hodgkin e Huxley condivisero col neurofisiologo John Eccles (1903-1997) il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 1963.
Il modello di HH si dimostrò con gli anni particolarmente robusto e generale e venne via via esteso ad altre cellule eccitabili: ci si riferisce a esso, fin da quegli anni, in termini di «teoria della eccitabilità di membrana». Essa ha dato e continua a dare un contributo conoscitivo fondamentale alla fisiologia, alle neuroscienze e a innumerevoli altri campi di ricerca.
Un aspetto straordinario, ma tutt’altro che raro nella storia della scienza, è il fatto che Hodgkin e Huxley formularono la loro teoria ignorando completamente l’esistenza dei canali ionici, veicoli delle correnti ioniche trans-membranarie da essi misurate, ma unicamente basandosi su osservazioni macroscopiche di variazioni di permeabilità di membrana. Giova ricordare infine, con riferimento alla controversia Galvani-Volta, che, dopo centocinquanta anni, il sistema di equazioni di HH restituì allo stimolo elettrico necessario per innescare il potenziale d’azione, per così dire, il suo giusto rango. Lo stimolo elettrico iniziale serve unicamente a depolarizzare la membrana fino alla sua soglia di eccitabilità, lungi dal fornire l’energia per generare il potenziale d’azione che, come abbiamo visto, viene essenzialmente dalla dissipazione dei gradienti ionici transmembranari12.
È stato fatto giustamente notare5 che lo stimolo elettrico proveniente dall’esterno non genera il potenziale d’azione (come implicitamente sostenuto da Volta nella controversia) così come la pila del telecomando non fornisce l’energia meccanica per l’apertura di un cancello elettrico comandato a distanza! Come il telecomando, lo stimolo fornisce il segnale; l’energia che genera il movimento del cancello è quella della linea elettrica e dei motori montati sui suoi cardini; allo stesso modo l’energia che genera il potenziale d’azione è tutta interna all’animale (come già sostenuto da Galvani) e contenuta nei gradienti ionici transmembranari dissipati durante lo stesso.
Neher e Sackman e la riscoperta della eccitabilità di membrana
Venne quindi il tempo dei canali ionici a confermare la teoria di HH e a dare un impulso mai visto prima alla elettrofisiologia cellulare.
Era la fine degli anni Settanta quando un fisico e un fisiologo tedeschi, Erwin Neher (1944-…) e Bert Sakmann (1942-…), misero a punto la tecnica del patch clamp13 che, sfruttando una nuova generazione di amplificatori differenziali e un nuovo tipo di micro-pipette, riuscì ad aumentare di diversi fattori di grandezza il rapporto segnale/rumore delle registrazioni elettrofisiologiche cellulari.
Nel patch clamp, a differenza della precedente tecnica dei microelettrodi, le pipette non pungevano e penetravano la membrana, ma vi si appoggiavano delicatamente, mosse da micromanipolatori precisissimi, realizzando con essa un contatto particolarmente stretto che impediva fughe di corrente (cosiddetto Gigaseal, sigillo cioè tra membrana e bocca della pipetta, associato a una resistenza elettrica altissima, nell’ordine dei GigaOhm). Dal Gigaseal in poi si potevano quindi realizzare diverse configurazioni di patch clamp, le cui caratteristiche tecniche vanno al di là degli obiettivi della presente trattazione.
Ancora una volta, come già nel caso di Galvani e Volta prima e Hodgkin e Huxley poi, l’innovazione tecnologica beneficiò della possibilità di disporre di preparati animali particolarmente adatti alle registrazioni. In quegli stessi anni si mettevano a punto infatti anche tecniche cosiddette di «dispersione cellulare» che, utilizzando enzimi particolari, consentivano di «sciogliere» letteralmente la matrice extracellulare dei tessuti e ottenere da essi singole cellule vive e funzionali, di cui si poteva quindi studiare in dettaglio l’elettrofisiologia. In particolare il patch clamp rendeva possibili misure su frammenti di membrana (patch, da cui il nome della tecnica) di solo qualche µm2 di superficie, consentendo così di effettuare esperimenti di voltage clamp su singoli canali ionici.
Ciò portò Neher e Sakmann, insigniti poi del premio Nobel nel 1991, a scoprire che la corrente che passava nei singoli canali ionici aveva un decorso temporale a gradini rettangolari, discreto insomma, e non continuo come quella che si misurava dall’intera membrana cellulare. I due studiosi trovarono, in altre parole, che i canali ionici esistevano solo in due stati possibili, chiuso o aperto, determinati da porte (gates) molecolari affacciate sul poro canale (si parla di teoria dell’eccitabilità di membrana o teoria del gating).
È interessante osservare come, dalla statistica di apertura di un singolo canale a un determinato valore del potenziale, si può ricavare l’andamento temporale della corrente che scorre sull’intera membrana a quello stesso potenziale e, viceversa, dal decorso temporale di questa ai vari potenziali si può ricostruire la statistica di singolo canale, corrispondenza nota come teorema ergodico.
L’enorme impulso dato alla elettrofisiologia cellulare dalla tecnica del patch clamp fu accompagnato, negli anni Ottanta e Novanta, dal rapido sviluppo delle conoscenze di biologia molecolare. Si scoprì tra l’altro che davvero l’assone gigante di Hodgkin e Huxley era stato un preparato fortunato! Esso era dotato infatti grosso modo di due sole specie di canali ionici, quelli rapidi di sodio e quelli di potassio, e ciò ne aveva immensamente facilitato la modellizzazione matematica.
La tecnica della dispersione cellulare consentì lo studio, tra gli altri, dei canali ionici responsabili del potenziale d’azione cardiaco. Si trovò che questo era determinato dall’attività coordinata di numerosi tipi di canali ionici, diversi per struttura, selettività ionica, voltaggio dipendenza e cinetica. Il patch clamp fornì in quegli anni il fenotipo fisiologico di tali canali, mentre la biologia molecolare ne chiariva la struttura, realizzando così una sinergia di conoscenze che fu linfa vitale per entrambe le discipline14 e che continua tutt’oggi.
Modelli sempre più complessi e tecniche di frontiera
A partire quindi dalla fine degli anni Ottanta si cominciò a disporre di una notevole mole di informazioni riguardante la struttura e funzione dei diversi canali ionici che generavano e modulavano l’eccitabilità in diversi tipi cellulari.
Tale informazione venne da subito travasata in ambito matematico: si cominciarono a compilare sistemi di HH sempre più complessi la cui soluzione forniva l’andamento temporale del potenziale d’azione corrispondente e delle correnti ioniche a esso sottese. I modelli, se sufficientemente dettagliati, riuscivano a ricostruire non solo l’attività eccitabile in condizioni fisiologiche, ma anche la sua modulazione fisio-patologica. Ad esempio, nel caso cardiaco, si riuscivano a simulare i diversi tipi di potenziali d’azione responsabili della attivazione elettrica del cuore, compresa l’auto-eccitabilità delle cellule pacemaker15. Queste, tra l’altro, avevano la proprietà, come accennato più sopra, di emettere potenziali d’azione senza essere stimolate elettricamente, fornendo una ulteriore prova di quanto la visione di Volta fosse sbagliata e di quanto l’energia elettrica che sostiene il potenziale d’azione fosse tutta interna alle cellule, come correttamente sostenuto da Galvani.
Se, da una parte, l’aumento delle conoscenze elettrofisiologiche cellulari porta a modelli matematici tipo HH sempre più sofisticati, dall’altro le conoscenze più approfondite della struttura dei tessuti e della comunicazione intercellulare consente la ricostruzione della propagazione dell’attività elettrica eccitabile in contesti tridimensionali e su scale spaziali allargate. Qui tuttavia gli strumenti matematici richiesti si fanno più complessi, come le macchine di calcolo parallelo necessarie per effettuare le simulazioni in tempi ragionevoli, e questo sia che si tratti di reti neuronali o di porzioni tridimensionali del ventricolo cardiaco.
Nel frattempo, dagli anni Novanta a oggi, il patch clamp si sviluppa in nuove straordinarie applicazioni. L’action potential clamp, per esempio, consente di pilotare il potenziale di membrana di una cellula eccitabile con il suo stesso potenziale d’azione e misurare sperimentalmente le correnti ioniche che lo generano16, prima di esso ricostruibili solo matematicamente. Essendo questa applicazione tecnologica basata su una proprietà matematica generale del sistema di equazioni di HH ed essendo le correnti ioniche registrate in action potential clamp identiche a quelle ricostruite matematicamente, essa fornisce, tra l’altro, l’ennesima conferma della bontà di questo tipo di modellizzazione.
Un’altra tecnica, il coupling clamp17, consente invece di accoppiare elettricamente due cellule eccitabili fisicamente separate tramite una conduttanza intercellulare fissata dall’operatore, e studiare così il ruolo di quest’ultima nella propagazione del potenziale d’azione. Con esso si definiscono le basi cellulari della propagazione di onde in mezzi eccitabili. Con l’aumentare della velocità dei processori elettronici, da anni tali accoppiamenti si possono realizzare tra cellule reali e cellule simulate.
Non solo, con la più promettente delle evoluzioni del patch clamp, il dynamic clamp18, una particolare combinazione elettronico-computazionale di action potential clamp e coupling clamp, si riescono letteralmente a inserire «elettronicamente» correnti ioniche simulate all’interno di una cellula reale. Un esempio potrà meglio chiarirne le potenzialità. È noto che una corrente ionica in particolare, nota come If, è responsabile del fatto che le cellule pacemaker cardiache emettano spontaneamente potenziali d’azione; essa è quindi presente unicamente nelle cellule pacemaker (senoatriali) e assente per esempio nelle cellule atriali cardiache.
Esistono patologie in cui l’automatismo delle cellule senoatriali viene meno o risulta in parte compromesso, tanto da richiedere l’impianto di un pacemaker artificiale.
I ricercatori si sono chiesti allora: di fronte a patologie di questo tipo, è pensabile esprimere con tecniche di biologia molecolare i canali ionici che portano la corrente If in un certo numero di cellule cardiache atriali e trasformarle in cellule pacemaker?
I ricercatori possono disporre di singole cellule atriali e dispongono di modelli matematici che descrivono, in termini di cinetica di HH, l’attività elettrica di If all’interno di una membrana. Tramite la tecnica del dynamic clamp possono allora inserire la corrente If, virtuale, nella cellula atriale reale e vedere cosa succede.
Quanti canali If devono essere espressi per rendere una cellula atriale automatica? La cinetica della corrente If introdotta può essere usata tale quale si misura nelle cellule pacemaker reali o va modificata? L’introduzione dei canali If in una cellula non pacemaker genera un battito regolare? Quanta variabilità è associata a tale battito? In quali parametri si registra variabilità?
Queste sono solo alcune delle molte domande a cui il dynamic clamp può rispondere prima di passare alla complessa sperimentazione in vivo che risulterà arricchita e guidata da questa tecnica straordinaria19.
Osservazione conclusiva
È evidente che lo studio della elettricità animale si è avvalso, fin dalla sua nascita, del fertile scambio fra discipline diverse come la fisica, la biologia, la medicina, la matematica e l’ingegneria. Le conoscenze si sono così evolute con la complessità dei fenomeni studiati.
Le neuroscienze e, più in generale, la ricerca elettrofisiologica, richiedono ora più che mai uno sforzo per ricondurre la complessità conoscitiva raggiunta (i) a rappresentazioni più concise e unitarie, che consentano un più agevole scambio tra le discipline coinvolte, e (ii) a protocolli sperimentali che, anziché essere limitati dalla molteplicità biologica, ne sfruttino le proprietà complesse al fine di semplificarne la conoscenza.
Come il dynamic clamp rappresenta un esempio di ciò sul fronte della tecnica, così l’utilizzo della matematica dei sistemi dinamici nello studio dei segnali elettrofisiologici lo è sul versante teorico. In entrambi viene utilizzato nella sua pienezza un metodo, quello scientifico, i cui presupposti, più su elencati, informano puntualmente il procedere della ricerca in questo affascinante campo del sapere.
A fine Ottocento si distingueva ancora la scienza in Storia Naturale (biologia, botanica, geologia) e Filosofia Naturale (fisica, chimica, astronomia). La biologia dei nostri giorni vuole inscriversi nella Filosofia Naturale: il caso della elettricità animale è un esempio in cui questo travaso conoscitivo è riuscito in modo singolarmente completo.
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Massimiliano Zaniboni
(Ricercatore presso la Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Parma)
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