C’era una volta un gruppo di ragazzini inglesi sbandati, cacciati dalle scuole e dalle università, alla disperata ricerca di qualcosa a cui aggrappare le loro fragili vite in un mondo che stava cambiando ma che sembrava rifiutarli. Per una serie di fortunate coincidenze incontrarono dei grandi vecchi dell’altra parte dell’Oceano Atlantico, anziani di colore, che cantavano in modo cadenzato e malinconico quanto la vita fosse dura da vivere. Quelle musiche aprirono una breccia nei loro cuori e si misero a cercarli, andarono da loro nei vicoli puzzolenti della Chicago di colore, in bar fumosi e scalcinati, oppure più sud, nei campi di cotone bruciati dal sole del Mississippi e ancora più fino fino al delta del grande fiume. Trovarono incroci che di notte mettevano paura, vecchie capanne abbandonate, juke joint deserti abitati da presenze spettrali. Fu così che il blues, l’anima oscura dell’America, sposò questi ragazzi inglesi e rinacque più bello e forte che mai. Uno di loro, Eric Clapton, divenne così bravo a suonarlo che sui muri di Londra qualcuno scrisse “Clapton is God”. Strano non scrisse che era il diavolo.
Oggi gli anziani sono loro, i pochi sopravvissuti, e Clapton è qui a portare in giro per il mondo, notte dopo notte, a 77 anni e una vita sulla corsia di sorpasso rischiando di perderla innumerevoli volte, quella musica, quel blues. E’ diventato uno di quei grandi vecchi di colore, è diventato il blues. Ed è sempre il migliore a suonarlo e se Muddy Waters diceva che “I bianchi possono imparare a suonare la chitarra, ma non riusciranno mai a cantare il blues, non hanno abbastanza anima perché non hanno sofferto abbastanza”, lui di sofferenza ne ha accumulata abbastanza per poterlo cantare e tutte le sue cicatrici sono portate con dignità e orgoglio sul palcoscenico. Ce le sbatte davanti, le affida alla chitarra e la lascia piangere.
“Quando tutti i grandi del blues se ne sono andati, inizi a capire che qualcuno deve tenere in vita la tradizione” dice. “Non la intendo come una missione, ma penso di avere una certa responsabilità nel mantenere viva questa musica e mi sento onorato del compito”.
Eric Clapton e la sua formidabile band, musicisti di tecnica sopraffina ma che sul palco sembrano un gruppo di amici che si diverte un mondo (Nathan East al basso, Sonny Emory alla batteria, Doyle Bramhall II alla chitarra, Chris Stainton e Paul Carrack alle tastiere, Katie Kissoon e Sharon White ai cori) non lasciano prigionieri. Ambientazione scenografica minimale, una serie di lampioni sopra di loro che dipingono tutto di bianco e nero, come una via di Soho tra la nebbia negli anni 60, si lanciano in un tris d’assi d’apertura che esplode di virulenza, passione, rabbia tenuta dentro ed è come un urlo alla vita: ci siamo, ci sono, sono vivo nonostante tutto: Tearing us apart, il super classico di Big Bil Bronzy Key to the highway dove Clapton e Bramhall si scambiano gli assoli e una virulenta, luciferina, spaventosa I’m your Hoochie Coochie Man e capisci che sei in “heaven” cercando di trattenere le “tears”.
La vecchia Blackie l’ha venduta per beneficenza, ma non importa: quando le sue dita corrono sul manico della chitarra è sempre Slowhand che lascia andare note lunghe, lamentose, melodicamente ineccepibili, a volte strazianti, a volte come lama rovente nella carne. E se Shot the sheriff, attaccata con una velocissima serie di accordi funky è l’usuale sarabanda caraibica e rock, nessuno si sarebbe aspettato che River of tears, un brano passato inosservato ai più nel lontano 1998 sul disco Pilgrim, fosse una tale commovente perla di bellezza assoluta. La chitarra di Clapton si fa dolcissima, appena pizzicata, lui canta di un mare di lacrime in cui sta affogando e senti che qualcosa abbandona il tuo corpo e cominci a volare alto, in una infinita bellezza cosmica che cancella tutti i tuoi dolori quotidiani. La musica salva.
L’intermezzo acustico scivola via piacevole, come essere in un juke joint degli anni 30 con Driftin’ blues di Charles Brown, il classico di tutti gli sconfitti dalla vita, Nobody knows when you’re down and out; Layla, che però preferiamo sempre nella torrenziale e devastante versione elettrica originale e una sorprendente Tears in heaven, più veloce dell’originale, quasi country. L’arci noto brano dedicato al figlio morto, diventa un tributo al recentemente scomparso Gary Brooker dei Procol Harum quando Carrack lascia andare gentilmente e dolcemente le note di apertura di A whiter shade of pale: non ci sono lacrime in paradiso stanotte.
Riprese le elettriche, è un tripudio di fuochi d’artificio: Badge, dal repertorio dei Cream scritto insieme all’amico scomparso George Harrison è una cavalcata nei Sixties più psichedelici e colorati di sempre, mentre Wonderful tonight è… be’, è Wonderful tonight. Cross road blues non è più il devastante assalto dei temp dei Cream, si colora di tinte spiritual grazie alle due straordinarie coriste, ma quando Clapton e Bramhall si scambiano gli assolo tutti i diavoli dell’inferno fanno festa. Ancora un grande del blues è omaggiato in oltre dieci minuti di spasmi sanguinanti, l’Elmore James di The sky is cryin’ con un breve accenno di Have you ever loved a woman all’interno, fino all’esplosione attesa da tutti i diecimila. Se oggi ragazzotti annoiati dicono che la droga non permette di scrivere grandi canzoni, e certamente fanno bene a invitare a non farne uso, ecco qui un 77enne che di droga ha rischiato di morire e che sbatte in faccia a tutti le sue cicatrici con orgoglio e dignità: Cocaine. Il finale è per una jam session all’insegna di High time we went del compianto Joe Cocker (sul palco c’è il pianista che lo accompagnò a Woodstock, Chris Stanton, che picchia come un ossesso sui tasti) e per un momento siamo tutti saliti sulla carovana di Mad Dogs and the Englishmen. Robben Ford, chitarrista straordinario, che aveva aperto la serata, è invitato sul palco e ci sono tre chitarre ad alzo zero che sparano le uniche bombe che vorremmo sentire, non quelle che esplodono in Ucraina, ma quelle delle chitarre. Quando Ford prende il suo assolo, Clapton e Bramhall si fermano dal suonare e lo guardano, con interesse, rispetto, curiosità, da veri appassionati di musica che anche alla loro età vogliono ancora imparare qualcosa.
Stanotte il cielo ha smesso di piangere, ci siamo sentiti tutti wonderful e e sappiamo che, sebbene ancora non vi apparteniamo, in paradiso ci sarà un posto per tutti noi. Perché 60 anni dopo, è ancora “Clapton is God”.