A poche ore dall’insediamento di Barack Obama al ruolo di presidente degli Stati Uniti, una delle domande più sentite riguarda l’atteggiamento che il neoeletto assumerà nei confronti della politica estera, in particolar modo per quanto riguarda l’attuale crisi israelo palestinese. Paolo Magris, direttore dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) esprime la propria autorevole opinione su quelle che considera siano le più realistiche e probabili mosse della nuova amministrazione
Ora che si è insediato alla presidenza degli Stati Uniti, Obama assumerà una posizione più netta nei confronti della crisi israelo palestinese? Se sì in quale direzione?
Se per “più netta” si intende una posizione che rechi “più attenzione” la risposta è senz’altro sì.
Questo perché, fatta eccezione per quanto riguarda l’ultimo periodo, l’amministrazione Bush si è dedicata con scarsissima attenzione alla crisi israelo palestinese in quanto presa da altri problemi che tutti conosciamo.
Ho invece qualche dubbio sulle probabilità di una netta revisione di strategia. Occorre infatti considerare che ogni presidenza americana fa i conti con l’importanza della lobby israeliana presente negli Stati Uniti. Abbiamo potuto notare come anche Obama abbia gradualmente accresciuto la sua attenzione nei confronti di questa componente e abbiamo altresì visto che le scelte in merito alla composizione dello staff sono nella tradizione e nel solco delle precedenti amministrazioni, in particolare quella del presidente Clinton.
Quindi non credo che ci si debba aspettare, oltre a una maggiore attenzione, una vera e propria rivoluzione.
Il fatto di aver telefonato per prima ad Abu Mazen e successivamente a Olmert rappresenta una maggiore disponibilità nei confronti dei palestinesi o la volontà di porre in primo piano e di riconoscere come rappresentante ufficiale l’ANP rispetto ad Hamas?
In parte ho già risposto a questa domanda asserendo che non ci dobbiamo aspettare scelte di campo non tradizionali.
Aggiungerei che la scelta di chiamare prima il leader palestinese ha il significato di sottolineare, da un lato il lato, il luogo geopolitico in cui persiste il problema, gli israeliani hanno infatti dichiarato una tregua e quindi i problemi più gravi adesso riguardano i palestinesi. In secondo luogo è un gesto che sicuramente investe sulla posizione del leader dell’ANP, Abu Mazen, di spendere su di lui il prestigio e la popolarità che in questo momento ha il presidente americano.
Noi sappiamo che Abu Mazen in questo momento è afflitto da un gravissimo problema di impopolarità. Dunque il gesto del presidente neoeletto, un presidente in questo momento straordinariamente popolare, è guidato dall’intenzione di lanciare un segnale, è un tentativo di trasferire “good will” e positività su questo personaggio in questo momento molto screditato.
Nei confronti dell’Iran Obama sembra essersi disposto in un atteggiamento di maggior apertura rispetto al precedente governo. A che cosa può portare una simile posizione?
L’atteggiamento di maggior apertura non è in realtà del tutto nuovo. C’era già stato di fatto, nell’ultima fase dell’amministrazione Bush, un riavvicinamento diplomatico all’Iran. Un importante rappresentante del dipartimento di stato americano ha, da settembre in poi, gestito l’apertura nei confronti dell’Iran e già questo è stato, insieme ad altri fatti, un segno di svolta nell’ultimo anno della presidenza Bush. Quindi il sorgere di una linea di dialogo, diretta o indiretta già c’è.
Obama si è spinto molto più in là. Ha dichiarato di voler aprire un confronto, correggendo comunque più volte il tiro su questo tema durante la campagna elettorale. In ogni caso ciò che conta è che l’Iran andrà fra pochi mesi al voto e fino a quel momento nessun tipo di trattativa seria sarà davvero possibile. Come si è dovuto aspettare per le elezioni americane così si farà lo stesso per quanto accadrà nello scenario politico iraniano.
Come si muoveranno gli Stati Uniti, e più in generale la Comunità Europea, in merito al problema della ricostruzione di Gaza?
Il problema della ricostruzione di Gaza è davvero serissimo. Perché versare dei fondi ad Hamas rappresenta sempre e comunque un grosso azzardo perché c’è il pericolo che vi siano distorsioni ed utilizzo improprio, ma, d’altro canto, realizzare progetti dentro Gaza senza collaborazione con Hamas significa rischiare di fare poco.
Non è un caso che su questo aspetto, nel giro di due giorni, i ministri degli esteri dei principali paesi del mondo si siano recati a Gaza. Attualmente la partita si gioca molto sulla ricostruzione.
Tanto quanto c’era stata un’assenza durante la guerra e i bombardamenti, al termine di questa, con la tregua annunciata da Israele, c’è stato un affollamento di visite, compresa quella del nostro ministro degli esteri Frattini. Perché la questione degli aiuti e della ricostruzione sarà davvero determinante. Sarà in questo frangente che si potrà infatti ricostruire un dialogo autentico con la popolazione se si vuol far sì che non converga in direzione delle frange più estremiste.