TAREQ AZIZ/ Mario Mauro: dietro la pena di morte un nuovo regime “alla Saddam”

- Mario Mauro

A Tareq Aziz tutto il mondo riconobbe un ruolo da interlocutore moderato. La sua morte farebbe tornare l’Iraq ai decenni del terrore di Saddam. Il commento di MARIO MAURO

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Desta non poca preoccupazione la sentenza dell’Alta Corte Penale di Baghdad, che martedì scorso ha condannato all’impiccagione Tareq Aziz, dal 1983 al 1991 Ministro degli Esteri e dal 1979 al 2003 Vice-primo Ministro dell’Iraq nonché consigliere personale di Saddam Hussein. Tutto il mondo ha sempre riconosciuto a Tareq Aziz di essere stato l’unico punto d’incontro e l’unico effettivo interlocutore moderato di cui poteva disporre il mondo occidentale nel tentativo di rapportarsi al sanguinario regime di Saddam Hussein.

Nonostante l’unico dato certo sia il fatto che Aziz non abbia mai preso parte ad alcuna decisione del regime che comportasse l’uccisione di qualcuno, credo non serva a nulla addentrarsi nel merito della condanna e affrontare le motivazioni addotte dalla Corte. E’ utile cercare di capire perché condannare a morte Tareq Aziz costituisce un fatto immensamente sbagliato, per il quale occorre una forte presa di coscienza da parte del Governo di Baghdad.

Paradossalmente, se la sentenza dovesse essere eseguita, l’esecutivo iracheno sarà l’unico attore politico che ne subirà davvero le conseguenze. Se l’impiccagione di Saddam Hussein, avvenuta il 30 dicembre 2006, aveva tutt’altro che giovato alla credibilità del giovane Governo post-regime, la condanna a morte di Aziz rischia di rendere ancora più evidente come, l’uso della violenza nei confronti di gerarchi del passato, nasconda in realtà una profonda debolezza istituzionale. La pena di morte è insomma un boomerang.

Auspico quindi che il Governo iracheno impedisca l’esecuzione della sentenza dell’Alta Corte Penale di Baghdad, affinché non si imbocchi un vicolo cieco che garantirà all’Iraq tutto tranne che pace e democrazia. La comunità internazionale si schieri compatta al fianco dell’Unione europea in questa battaglia di civiltà, per il bene del popolo iracheno e per non perdere la speranza di una stabilità politica e istituzionale.

La speranza di una sospensione, o comunque di una mancata esecuzione della sentenza, è ragionevolmente viva, sempre che chi detiene il potere oggi in Iraq non faccia finta di non sentire la voce dei paesi che facevano parte della coalizione che ha condotto il paese fuori da decenni di terrore. E’ proprio in memoria di quei decenni di terrore che non deve prevalere la logica perversa per cui il potere è il fine di tutto in uno stato onnipotente e illiberale.

Se l’Iraq ha davvero voglia di voltare pagina non può prescindere da questa considerazione, e non può ignorare gli appelli di amici come l’Unione europea, che non accetta la pena di morte come metodo supremo di soluzione di problemi che, in questo caso, hanno un evidente sapore politico che sovrasta la ricerca di una vera giustizia.







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