Tutto il drammatico vuoto di un’epoca capace molto più di festeggiare che di riflettere, e nella quale i media sempre più spesso comunicano se stessi invece dei fatti che dicono di comunicare, è emerso clamorosamente nel recente caso del 25° anniversario della caduta del Muro. D’altra parte sembra che anche la caduta del Muro in quanto tale fosse stata, venticinque anni fa, rimandata di un giorno o due per dare tempo alla Germania di Helmut Kohl e ai media di gestirla al meglio. Certamente con l’aiuto di esperti autori e registi di celebrazioni spettacolari, l’anniversario è divenuto qualcosa di simile alle feste inaugurali delle Olimpiadi, che poi le grandi catene televisive internazionali hanno provveduto ad ampliare e reiterare in ogni angolo del pianeta.
L’evento è così divenuto uno spettacolo fine a se stesso;e non invece, come eventi del genere dovrebbero essere, una circostanza per tornare a riflettere sul fatto commemorato e sulle sue conseguenze nel presente. Si è persa così l’occasione per dibattere sui motivi per cui oggi, a venticinque anni da quel fatto, ossia dalla fine della guerra fredda, ci troviamo così come ci troviamo. La guerra fredda fu appunto “fredda”; solo però al centro del suo teatro, non anche ai suoi margini (basti pensare al Sudest asiatico, al Vicino Oriente, all’America Centrale, eccetera).
A parte tale sua caratteristica, che comunque salvò l’Europa dalla tragedia di un altro conflitto continentale, la guerra fredda fu una guerra a tutti gli effetti. E non meno delle due guerre mondiali che l’avevano preceduta si concluse la vittoria di una parte e la disfatta dell’altra, con tutti gli squilibri conseguenti. Come la prima guerra mondiale si era conclusa con lo sgretolamento degli imperi tedesco, austro-ungarico e ottomano, così la guerra fredda si concluse con lo sgretolamento dell’ultimo degli imperi europei, quello zarista, che con il nuovo nome e nella nuova veste di Unione Sovietica era sopravvissuto agli altri.
Fino ad allora nessuno aveva mai messo in discussione che a un grande conflitto dovesse seguire una conferenza di pace per definire e stabilizzare i nuovi equilibri, e quindi creare le condizioni per una ripresa non rovinosa dei rapporti tra vincitori e vinti. Alla fine della guerra fredda invece non accadde niente di simile, poiché a ciò si opposero fermamente gli Stati Uniti. Washington respinse la proposta in tal senso di Gorbaciov inducendo i suoi alleati a fare lo stesso. Ben diversamente da quanto aveva fatto alla fine del secondo conflitto mondiale, non mise a disposizione dei vinti alcun piano Marshall. E al posto della conferenza di pace offrì come unico elemento di stabilizzazione l’ingresso nella Nato ai paesi dell’Europa orientale già membri del patto di Varsavia.
Chi riesca a guardare alla realtà delle cose al di là delle grandi campagne pan-mediatiche di organizzazione del consenso internazionale, in cui Washington eccelle, coglie senza fatica la sostanza crudamente aggressiva di tale politica: non si pone rimedio all’instabilità che un grande conflitto lascia dietro di sé, ma anzi si tende a renderla cronica. E in questo quadro caratterizzato da cronica instabilità ci si muove a mani libere dopo essersi tirati dalla propria parte alcuni degli antichi nemici, e aver lasciato invece “fuori e al freddo” (come si direbbe inglese) tutti gli altri. Si tratta peraltro del maggior caso di applicazione di una filosofia delle relazioni internazionali che caratterizza gli Stati Uniti ormai da oltre sessant’anni. Gli ultimi trattati di pace che gli Usa hanno firmato e lasciato che altri firmassero sono quelli con cui si concluse la seconda guerra mondiale. In seguito hanno fatto o fatto fare diverse altre guerre, ma senza mai né dichiararle né poi concluderle o lasciarle concludere con trattati di pace.
Se si confrontano i 25 anni che seguirono alla fine della seconda guerra mondiale con i 25 anni che hanno seguito alla caduta del Muro di Berlino si vede chiaramente quanto rilevanti siano rispettivamente le conseguenze di queste due diverse filosofie delle relazioni internazionali; e chi ne paga il conto. Dopo i palloncini, gli squilli di tromba, l'”Inno alla gioia” di Beethoven e i concerti dei divi del rock sarebbe il caso di cominciare a pensare anche a questo.