SCENARI/ Ucraina, Libia e Siria: così l’Italia può passare all’azione

- Paolo Raffone

Le gravi crisi in corso in Ucraina, Siria e Libia non stanno di certo aiutando l’Italia. PAOLO RAFFONE ci spiega come il nostro Paese può evitare danni peggiori degli attuali

Italia_NaveR439 foto: Infophoto

Questo articolo inquadra le gravi crisi in corso in Ucraina, Siria e Libia in un contesto più ampio, geostrategico e geoeconomico, ma con un occhio puntato all’interesse nazionale dell’Italia. Non esistono soluzioni ottimali, ma solo percorsi possibili per evitare danni ancor peggiori di quelli attuali. Vista la situazione alla quale siamo giunti, qualsiasi soluzione non potrà che essere proiettata sul medio e lungo periodo.

Per fortuna sono lontani i tempi che permettevano all’ombra del mondo bipolare di organizzare colpi di stato in giro per il mondo con lo scopo di sostituire governi legittimi con regimi ritenuti più collaborativi. Erano i tempi delle “guerre a bassa intensità” progettate dalla Cia. Iconici furono i casi del Cile (1973) e dell’Argentina (1976), a opera degli Usa, della Libia (1969), a opera dell’Italia, e della Somalia (1969), a opera della Russia sovietica e poi anche dell’Italia. Queste erano operazioni di counter-intelligence, anche note come “contras”, che si incagliarono con i fallimentari tentativi americani in Iran e in Nicaragua, tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80.

Nonostante la crescente opposizione del Congresso americano, che nel 1984 adottò il “Boland Amendement” che imponeva il divieto totale di finanziare tali interventi in paesi terzi, l’Amministrazione Reagan continuò segretamente queste operazioni. Com’è noto, infatti, un consulente del National Security Adviser, Robert McFarlane, negoziò con il primo ministro israeliano, Shimon Perez, la vendita di armi contro il regime iraniano degli Ayatollah. Scoppiò lo scandalo politico negli Stati Uniti e le inchieste del famoso giornalista investigativo Bob Woodward imbarazzarono pesantemente l’Amministrazione Reagan e portarono a processi e defezioni tra i suoi ranghi.

Archiviata la dottrina Reagan, negli anni ’90 l’Amministrazione Clinton sostenne l’idea di “esportare la democrazia” attraverso operazioni militari con finalità “umanitarie”, figlie del “diritto all’ingerenza” (sic!), che si inaugurarono nella tragica guerra in Jugoslavia culminata con il bombardamento di Belgrado nel 1999. La dottrina Clinton non risparmiò molti altri paesi che assaggiarono la libertà dall’Urss con una serie di “rivoluzioni colorate”. Queste ultime seguivano uno schema predeterminato: ammorbidimento del sistema di governo attraverso l’istigazione al malcontento; delegittimazione dei leader e delle istituzioni nazionali; infiammare la strada con proteste al grido “il popolo lo chiede”; guerra psicologica per impedire il funzionamento delle istituzioni e delle forze di sicurezza; frattura istituzionale e sostituzione delle leadership nazionali.

Ricordiamo alcune “rivoluzioni colorate” che hanno avuto come simbolo uno specifico colore o un fiore: la “rivoluzione arancione” in Ucraina (2004), la “rivoluzione delle rose” in Georgia (2003) o quella dei tulipani in Kirghizistan (2005). Sulla stessa scia, tra il 2010 e il 2011 sono esplose nei paesi arabi una serie di “primavere della democrazia” (rinominate rapidamente “risveglio arabo”) che subito persero l’aura di spontaneità delle sollevazioni popolari per liberarsi dei regimi dittatoriali post-coloniali, che erano stati sostenuti dall’Occidente perché funzionali ai propri interessi geostrategici e geoeconomici. L’epilogo di restaurazione militare-autoritaria dell’Egitto è sotto gli occhi di tutti e le orrende guerre ancora in corso in Siria e in Libia tormenteranno i sonni dell’Occidente per molti anni a venire.

Dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, a quella di Clinton si sovrappose la dottrina Bush, che in nome della “guerra al terrore” portò all’invasione dell’Afghanistan (2001) e dell’Iraq (2003), con le tragiche conseguenze che conosciamo fino ai nostri giorni. Alla fine degli anni 2000, abbandonata la dottrina Bush, l’Amministrazione Obama ha rielaborato la dottrina Clinton nella “responsabilità di proteggere” (responsibility-to-protect, or R2P) nel quadro dell’Onu. La sua applicazione ha portato agli interventi militari “di protezione” in Darfur (2006), Libia (con l’assassinio di Muammar Gheddafi nel 2011), Yemen, Costa d’Avorio, Sudan e Sud Sudan (nel 2011 e 2013), Mali e Repubblica Centro Africana (2013-2014). In seguito alla tragica applicazione della R2P in Libia, la Russia e la Cina hanno deciso di opporsi con fermezza impedendo l’autorizzazione dell’Onu a tali interventi in Siria e più recentemente in Ucraina.

In ragione della continuità pluridecennale della politica estera italiana, le crisi in Libia, Siria e Ucraina hanno la massima rilevanza per l’interesse nazionale. Il tratto comune della situazione in Ucraina e in Libia è che, in seguito alle interferenze o interventi esterni, sono state abbattute le strutture di comando e controllo dello Stato centrale: nel caso dell’Ucraina, il governo golpista che ha sostituito il legittimo presidente Yanukovich ha dissolto la polizia antisommossa (Berkut), perdendo un importante strumento di controllo del territorio e, più gravemente, lasciando allo sbando gli elementi che la costituivano; nel caso della Libia, l’intervento militare esterno ha distrutto tutte le strutture fisiche del sistema di governo e di controllo, provocandone l’umiliazione e il naturale ricongiungimento alle strutture tribali se non la creazione di milizie autonome. La Siria è stata molto vicina a subire la stessa sorte, se non fosse intervenuta una potente iniziativa diplomatica coordinata dalla Russia che ha permesso di negoziare con il legittimo governo, preservandone molti dei sistemi centrali di governo e controllo. In sintesi, appare evidente che le azioni dell’Occidente non hanno imparato la lezione dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003.

In queste tre situazioni l’Italia ha subìto le condizioni imposte da altre potenze della Comunità internazionale. Senza voler qui ripercorrerne le ragioni, è certo che l’Italia ha ricevuto un enorme danno sia sul piano del ruolo geopolitico che geoeconomico, oltre a vedere aggravati i rischi geostrategici che pongono questi paesi nell’attuale situazione. Nel periodo 2011-2014 si sono succeduti ben quattro governi italiani a costanza di Presidente della Repubblica, ma non è emersa alcuna linea strategica a tutela dell’interesse nazionale.

Il primo luogo comune da sfatare è la presunta debolezza dell’Italia, che sembra piuttosto essere una scusa perfetta per coltivare l’ignavia. Se la nostra classe politica non eccelle in competenze strategiche internazionali, lo stesso non può dirsi delle nostre forze armate e dei servizi di sicurezza e di quelli diplomatici. L’Italia ha accumulato una pluridecennale esperienza e conoscenza delle situazioni in Libia, Siria e Ucraina, oltre che in Russia, Israele ed Egitto. Non ci sono scuse per non adottare una visione strategica di medio e lungo periodo da negoziare con i nostri partner atlantici, europei e internazionali.

Mentre i nostri politici ci condannano all’autoesclusione da aree di nostra tradizionale influenza, peraltro anche fondamentali sul piano degli interessi economici e della sicurezza, la Germania agisce da “rappresentante di fatto” dell’Ue nelle relazioni con la Russia sul caso ucraino, e gli Usa sono intervenuti in Libia a sostegno del debolissimo governo centrale con due operazioni. La prima è stata il dispiegamento delle unità navali dei Seals davanti alle coste libiche permettendo, tra l’altro, di sostenere l’autorità del governo libico nel pattugliamento delle coste e nella repressione di commerci illeciti. È sorprendente che la stampa italiana non abbia quasi citato l’operazione Usa e che a quasi un mese dall’espresso richiamo del Presidente Obama a Matteo Renzi non emerga ancora una visione strategica italiana sulla Libia. L’unica cosa che il Premier italiano ha vagamente annunciato è la richiesta all’Onu di nominare un rappresentante di alto livello in Libia.

La seconda operazione Usa riguarda il dispiegamento di unità speciali americane nella regione desertica del Fezzan con lo scopo di contrastare i collegamenti tra le varie fazioni jihadiste ivi in transito. Anche di questo è emerso poco o nulla sui media italiani. Eppure eminenti studiosi e commentatori italiani hanno contribuito con analisi e proposte. A titolo di esempio (evidentemente non esaustivo) suggerisco di leggere quanto ha scritto Karim Mezran per un convegno dell’Ispi dello scorso febbraio e in marzo per la rivista italiana di geopolitica Limes, oppure Franco Venturini sul Corriere della Sera del 5 maggio scorso.

Negli ultimi giorni si è sentita una voce governativa inusuale. Marco Minniti, sottosegretario di governo con delega ai servizi di sicurezza, ha indicato con inequivocabile chiarezza che la situazione in Libia nuoce gravemente all’interesse nazionale italiano e indirettamente a quello dell’insieme dell’Ue. La politica italiana, in particolare Matteo Renzi e i ministri Pinotti e Mogherini, non ha più scuse per rinviare la presentazione ai partner internazionali ed europei di un piano d’azione pluriannuale per la Libia all’altezza di un Paese come l’Italia. Non farlo o prendere mezze misure di convenienza avrà effetti negativi di lungo periodo, probabilmente irrecuperabili sia per la nostra sicurezza e il nostro ruolo internazionale, sia per i nostri approvvigionamenti energetici. Ricordiamoci che quando gli interessi nazionali francesi sono stati minacciati, nonostante la propria debolezza politica, il presidente Hollande non ha esitato ad agire in Mali, Ciad e Repubblica Centro Africana. In pochi sanno che l’esercito italiano partecipa con un’unità proprio in quest’ultima missione francese!

Sulla situazione in Siria, la diplomazia italiana sta da tempo puntando su un approccio regionale e sul rapporto con l’Iran e la Turchia. Ci sarà bisogno di molto di più, ma di questo parleremo in un prossimo articolo.

Invece è sulla situazione in Ucraina che l’Italia rischia di perdere molto del patrimonio di relazioni e di interessi che sin dagli anni ‘30 la collegano alla Russia. Due miei recenti articoli pubblicati su questo giornale danno conto dei rischi e delle possibilità di evitarli. Anche un analista di sicura fede atlantica, Carlo Pelanda, ha scritto su queste pagine che la soluzione della crisi in Ucraina “dipende dal posizionamento geopolitico della Russia” che conviene sia con l’Occidente. Implicitamente si riconosce il fallimento delle dottrine americane verso l’Ucraina e la Russia e si suggerisce di seguire la linea del dialogo inclusivo che, sebbene con accenti diversi, Italia e Germania stanno portando avanti con Putin.

Anche in questo caso, l’Italia “politica”, diversamente da quella industriale e finanziaria, sembra muoversi con rassegnazione rispetto al ruolo dominante della Germania e degli Usa. La paralisi politica che ci siamo auto-inflitti con il referendum sul governo Renzi mascherato da elezioni europee non può e non deve giustificare l’inazione in politica estera quando sono in gioco i nostri interessi nazionali. Senza una sicura guida politica i servizi di sicurezza e diplomatici sono insufficienti a garantire dei risultati tangibili.

Il 25 maggio si insiste a celebrare le elezioni in Ucraina, oltre alle europee. Pensare e agire dopo potrebbe essere fatale! Aspettare che Obama ci dia indicazioni nel prossimo G7 di giugno a Bruxelles è una scelta perdente e di inutile sottomissione. 





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