Bibi Netanyahu può ritenersi soddisfatto. La sua campagna elettorale, in vista delle elezioni politiche del 17 marzo, ha trovato un aiuto fortemente cercato, ma anche in parte insperato. La risoluzione giordano-palestinese presentata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, infatti, è stata respinta senza che gli Stati Uniti esercitassero il loro diritto di veto. Netanyahu era già riuscito a convincere Barack Obama e il suo segretario di stato John Kerry a votare contro la risoluzione palestinese e a porre il veto contro un’eventuale approvazione della risoluzione da parte della maggioranza dei 15 stati oggi componenti il Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Un assenso, quello americano, alle tesi di Netanyahu tutt’altro che scontato. A tutti è ben nota la disistima di Barack Obama e John Kerry nei confronti di Netanyahu e, si potrebbe dire, anche viceversa. L’attuale amministrazione americana, in definitiva, non crede che il premier israeliano sia un politico sincero, quando afferma di volere un accordo di pace con i palestinesi. Da parte sua Netanyahu ritiene Obama e ancor più Kerry animati da un maldestro spirito messianico, disposto a pericolosi compromessi pur di ottenere l’assenso palestinese ad un accordo di pace.
Tuttavia i leader americani, prima del destino della Palestina, hanno a cuore il presente dei rinnovati rapporti con l’Iran. La dirigenza statunitense ormai da anni lavora per disinnescare un possibile conflitto con l’Iran, legato ai piani di sviluppo del settore nucleare. Con alterne fortune, gli sforzi americani hanno fin qui prodotto complessivamente buoni risultati. La comune lotta, in Iraq, dei soldati americani e, a distanza, delle milizie iraniane contro i fondamentalisti dell’Isis sembra quasi il suggello di questo estenuante sforzo diplomatico americano sul versante iraniano. Un impegno che ha visto gli Stati Uniti imporre all’alleato israeliano un deciso blocco ai piani di attacco aereo degli impianti nucleari iraniani.
Questa fermezza americana verso Netanyahu ha avuto un prezzo politico per Obama e Kerry: una rinnovata opposizione americana alle iniziative diplomatiche palestinesi all’Onu. Con il beneplacito del Congresso americano, prodigo di mozioni bipartisan pro Netanyahu. Di qui il preannuncio del veto americano. Tuttavia, se il veto fosse stato necessario l’isolamento politico e diplomatico di Israele e del governo Netanyahu sarebbe stato ugualmente evidente.
Invece, il documento palestinese non ha raggiunto i nove voti favorevoli, considerati indispensabili. Otto paesi (Francia, Cina, Russia, Argentina, Ciad, Cile, Giordania, Lussemburgo) hanno votato per la risoluzione palestinese che chiedeva un accordo di pace entro un anno, il ritiro dei soldati israeliani dai territori palestinesi non oltre la fine del 2017 e Gerusalemme capitale anche del nuovo stato palestinese.
Due i paesi che hanno votato contro (Stati Uniti ed Australia) e soprattutto cinque i paesi che si sono astenuti (Nigeria, Ruanda, Regno Unito, Lituania e Sud Corea).
Netanyahu può dire che Israele non è isolata nel mondo. Il premier lo afferma anche rivolto ai suoi oppositori interni. E’ sufficiente ricordare che all’inizio di dicembre una petizione che in Israele chiedeva ai parlamenti europei di riconoscere lo stato palestinese era stata sottoscritta da centinaia di intellettuali, tra i quali gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua.
Adesso anche Tzipi Livni, una dei leader della nuova coalizione di centro sinistra che intende battere Netanyahu alla prossime elezioni, si compiace per il voto delle Nazioni Unite. Tuttavia la Livni aggiunge: “oggi non è una bella mattina per Israele”, perché dovrà affrontare la nuova battaglia politica di Abu Mazen sulla scena internazionale. A poche ore da questa affermazione il presidente palestinese firmava la richiesta di adesione della Palestina alla Corte Penale Internazionale. Se accolta, i palestinesi potrebbero chiedere alla Corte internazionale di giudicare militari e politici israeliani per omicidi mirati o più vaste operazioni militari, come quelle ordinate contro Gaza. Sarebbe un salto di qualità nel conflitto israelo-palestinese.
Dopo il voto all’Onu ci sono infine altri due terreni di scontro che rischiano di aggravarsi: le colonie israeliane, sempre più in crescita nei territori palestinesi, e Gerusalemme, che gli israeliani vorrebbero nei fatti sottrarre ad ogni possibile stato palestinese. La Francia, decidendo di votare a favore della risoluzione palestinese all’Onu, questo aveva sottolineato: la politica dei fatti compiuti portata avanti da Israele, ormai da anni, con l’espansione delle colonie rischia di impedire la nascita dello stato palestinese. C’è da aggiungere che sottovalutare quello che accade a Gerusalemme e l’importanza che questa città ha oggi ed in futuro per palestinesi, arabi e musulmani è un altro elemento di miopia politica e diplomatica di alcuni stati europei e degli Stati Uniti.
Adesso questi stessi stati chiedono che si riprenda il negoziato di pace e lo chiede anche Netanyahu. Tutto può accadere, ma la politica del doppio binario (i fatti e le parole) non porterà a quella pace che in tanti invece vogliono.