GUERRA AL TERRORE/ Oltre a uccidere, l’Isis fa politica: ma nessuno se n’è accorto

- Caleb J. Wulff

Diventa sempre più evidente come lo stato islamico abbia una propria strategia a livello globale, pur non convenzionale, che sembra però trovare impreparato l'Occidente. CALEB J. WULFF

Califfo_R439 Il sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi (Infophoto)

Dopo i tragici eventi di Parigi in Europa si è cominciato a parlare non più di “semplici” attentati terroristici, ma di una vera e propria guerra dell’Isis contro l’Occidente. Diventa quindi sempre più necessario arrendersi alla realtà e considerare ciò che è realmente l’Isis, uno Stato, che non può essere esorcizzato chiamandolo “sedicente”, uno Stato che ha intrapreso una guerra di lunga durata e il cui obiettivo principale non è neppure l’Occidente, almeno per il momento.

Recentemente il quotidiano inglese The Guardian ha analizzato una serie di documenti ufficiali dell’Isis, pervenuti attraverso vari canali, dai quali risulta chiaramente il progetto di dotare il califfato di tutte le strutture tipiche di uno Stato, a partire da un’efficiente amministrazione e da un vero e proprio esercito organizzato, non più solo milizie.

E’ stato costituito una sorta di ministero dello welfare, basato sulle entrate della zakat, la decima che ogni musulmano deve versare, e si sta cercando di contrastare la corruzione, male endemico di quelle regioni. Gli interventi, cioè, che a Gaza fecero vincere le elezioni ad Hamas sul laico — ma corrotto — Fatah.

Particolare attenzione viene poi data all’educazione, sia pure con connotati molto confessionali, all’apparato statale, all’economia, alle infrastrutture, con l’obiettivo dichiarato dell’autarchia, senza dover ricorrere in niente ad altri.

Oltre quelli derivanti dall’intensificarsi dei bombardamenti, l’attuazione del progetto incontra molti ostacoli, come il fatto di dover gestire territori appartenenti a due Stati diversamente organizzati, Siria e Iraq. Per rendere possibile una gestione unificata è stata costituita una nuova provincia che comprende i territori a cavallo del vecchio confine.

Il Guardian cita anche il generale in pensione Stanley McChrystal, già comandante delle forze della coalizione in Afghanistan e che nel 2006 aveva guidato in Iraq l’operazione che aveva portato all’uccisione di al-Zarqawi, uno dei fondatori dell’Isis. Secondo il generale, l’Occidente commetterebbe un grave errore se continuasse a ritenere l’Isis solo “una banda di assassini psicopatici”. Lo era anche Hitler, ma ciò non ha impedito che la Germania nazista fosse un vero Stato ben organizzato.

In questo disegno, un ruolo importante gioca il califfato, istituzione che suona bizzarra per l’Occidente, come fosse una ripresa del Sacro Romano Impero, ma che non è bizzarra per una parte non indifferente della umma, la comunità universale sunnita, anche per chi non riconosce l’autorità di califfo ad al-Baghdadi, ma che potrebbe riconoscerla a qualcun altro.

I primi nemici dell’Isis, perciò, sono tutti quelli, musulmani o no, che non accettano questo progetto e il conseguente obiettivo di costituire uno Stato islamico là dove possibile all’interno del mondo sunnita. Per il momento, la contiguità territoriale non è indispensabile e, quindi, ben venga un simile Stato in Libia, in Nigeria o Somalia.

L’Occidente è un obiettivo di più lungo termine, ma l’Isis può cominciare a gettare il seme del suo progetto nelle comunità islamiche lì presenti e trarre da esse combattenti, che noi definiamo foreign fighters, ma che per loro non sono stranieri, bensì fratelli nella fede che vanno a combattere per la difesa e l’espansione del califfato.

Anche la lunga serie di attentati rientra in una logica di guerra, che è manifesta, per esempio, nell’attentato a Beirut, diretto contro le milizie Hezbollah che combattono in Siria a fianco di Assad, ma anche nell’abbattimento dell’aereo russo nel cielo di quella parte del Sinai sotto il controllo dell’Isis o di suoi alleati.

In questi attacchi è però sempre presente anche un aspetto politico, particolarmente evidente negli attentati in Turchia, quello di Suruc a luglio (33 morti) e quelli di Ankara dell’inizio ottobre (120 morti). Gli attacchi sono stati condotti contro curdi e loro sostenitori, cioè i principali nemici dell’Isis in Siria e Iraq, ma essi hanno di fatto favorito la conquista della maggioranza assoluta da parte di Erdogan nelle successive elezioni. L’Isis ha così evitato il pericolo di un governo di coalizione con la partecipazione del partito curdo, fino a quel momento in forte ascesa, e ora l’esercito e l’aviazione turchi risultano più attivi contro i curdi, non solo i separatisti del Pkk, che contro le milizie islamiche. E’ di qualche giorno fa la notizia dello sconfinamento in Iraq di militari turchi nelle zone controllate dai curdi.

Negli attentati di Parigi è difficile scorgere un fattore militare, anzi, sono stati proprio gli attentati a indurre il governo francese a partecipare ai bombardamenti in Siria. Tuttavia, gli attentati sono stati effettuati con modalità tali da escludere l’opera di gruppi solitari, solo ispirati all’Isis, e fanno pensare, se non a una vera e propria direzione, quantomeno a un coordinamento con lo Stato islamico.

Se non fosse stato sventato il piano originale di far esplodere le bombe all’interno dello stadio, gli effetti sarebbero stati disastrosi e avrebbero messo a repentaglio la vita dello stesso presidente francese. In questa prospettiva, il colpo inferto sarebbe stato tale da far considerare la rappresaglia dei bombardamenti un prezzo del tutto sostenibile.

L’esito dell’operazione è stato ad ogni modo rilevante, inducendo i media a parlare di un 11 settembre europeo, e la decisione di Hollande di cooperare con Putin, scavalcando Ue e Washington, ha inserito un’ulteriore crepa nel già diviso Occidente. La creazione di uno Stato islamico in Libia sta creando ulteriori gravi problemi all’Europa e soprattutto all’Italia, sempre più incapaci di disegnare una comune strategia. E la Libia non sarà, purtroppo, l’ultima tappa di questo tragico viaggio.





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