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Home » Esteri » IL CASO/ In Kenia i cattolici imparano il Corano per non essere uccisi

  • Esteri

IL CASO/ In Kenia i cattolici imparano il Corano per non essere uccisi

Mauro Leonardi
Pubblicato 11 Maggio 2015
strage_kenya_garissa_r439

Sopravvissuti a Garissa (Infophoto)

Dopo la strage di Garissa, i kenioti che vanno al catechismo dovranno imparare alcuni elementi fondamentali del Corano per evitare di essere trucidati. MAURO LEONARDI

Dalle parti di Garissa, AK-47 non è il nome di un videogioco ma del fucile mitragliatore con cui dovrà fare i conti chi va al catechismo. E poiché per gli 11 morti di Charlie Hebdo si è mosso il mondo intero, mentre per i 150 morti e 80 feriti fatti da Al Shabaab l’unica voce che si è levata è stata quella del Papa, da adesso i vescovi kenioti, oltre che il vangelo, insegneranno ai bambini anche il Corano. Lo racconta ai giornalisti Anthony Muheria, il vescovo di Kitui, che insieme ad altri 25 presuli keniani ha incontrato il Papa.


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Nella seconda guerra mondiale succedeva che per sfuggire alle retate naziste i bambini ebrei recitavano il Padre Nostro e l’Ave Maria; adesso per sfuggire alle milizie jihadiste, quelle che il 2 aprile scorso proprio a Garissa hanno trucidato i cristiani, al catechismo accanto al nome della mamma di Gesù si insegnerà anche quello della mamma di Maometto. Sì, perché quando le milizie arrivano armate di pistola, fucile e machete, non guardano la carta d’identità per separare i musulmani dai cristiani ma interrogano sul Corano come un tempo facevamo noi col catechismo di San Pio X. E allora devi mandare a memoria i 99 nomi di Allah, i fatti salienti della vita del Profeta, e tutto quanto può servirti per salvare la pelle.


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Per noi i problemi del catechismo della prima comunione sono il colore della bomboniera e la compatibilità con l’orario della piscina. Per altri, diventare cristiani è imparare ad essere cristiani in un mondo terribile, che però è pur sempre il proprio mondo. “Chi sono io” è subito e drammaticamente “chi sono io in questo mondo”, chi sono io rispetto agli altri. Non ho ancora usato la parola “martire” – quella che tutti noi abbiamo sulla punta della lingua – perché si diventa cristiani non per morire martiri, ma per vivere.

È un distinguo sottile, difficile, che si confonde facilmente con l’ipocrisia e la doppiezza e invece è soltanto la sottigliezza della sapienza della Bibbia (libro della Sapienza, cap. 7) e l’astuzia del serpente del Vangelo (Mt 10,16). È la furbizia che è sapienza e non sopraffazione. È la furbizia del Pastore che mette nel catechismo pomeridiano delle sue pecore una materia in più, quella del Corano, e fa come le suore che insegnavano ai bambini ebrei il Padre Nostro pur di salvarli dalla Gestapo, o come i partigiani a cui davano da indossare delle tonache non appena le SS bussavano ai conventi per i rastrellamenti. Il cristianesimo è anche “un sapersela cavare nel mondo” che fa del mondo un luogo di sapienza, di vita reale, di vita da salvare prima di tutto.


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Chi potrà togliere dal cuore di quei bambini ebrei salvati durante il nazismo che il Dio cristiano, pur di salvare la vita agli uomini, ama farsi chiamare Padre anche da chi non dice di credere in Lui? Se per 11 vittime di Charlie Hebdo si è mossa lodevolmente una moltitudine di Capi di Stato ma per 150 cristiani massacrati neppure il governo keniota alza un dito, che devono fare i pastori? Spiegare alle pecore che Dio ha dato loro di essere intelligenti e furbi; insegnare ad alzare gli occhi al cielo per pregare Gesù e ad aprire la bocca per rispondere alle domande sul Corano. La storia si ripete e la saggezza della Chiesa, visto che quella dei potenti latita, anche. Perché anche noi si faccia lo stesso qualora i miliziani di altre etichette irrompessero nelle nostre scuole, chiese e strade o se dovesse accadere che i nostri figli vengano divisi tra capri e agnelli non da Dio ma da fanatici fondamentalisti.

Tags: Persecuzione cristiani

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