SOUTH BEND (Indiana) — Il sociologo Charles Wright Mills, uno dei maggiori studiosi della struttura del potere oligarchico americano, sostiene che la natura delle decisioni del potere oligarchico sia impersonale (The Power Elite, Oxford University Press, 1956). Ad esempio, mettiamo che venisse ratificato il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) tra gli Stati Uniti e gli stati dell’Unione Europea, compresa l’Italia (sic), che porterebbe, per esempio, all’abbattimento delle regolamentazioni europee sui controlli per la sicurezza alimentare dando via libera all’importazione di prodotti americani sul mercato europeo. Chi sarebbe responsabile della conseguente devastazione delle tradizioni particolariste del settore alimentare italiano? Tutti e nessuno. Tutti, perché a essere sostenitori del trattato sono rappresentanti di governi nazionali e delle grandi multinazionali (ad esempio, le multinazionali americane componenti del Csi, Coalition of Services Industries, tra cui Google, Facebook, JP Morgan, Walmarth, 21st Century Fox, Disney, American Insurance Association); nessuno, perché in una convergenza di interessi così complessa e stratificata sarebbe impossibile determinare la responsabilità del singolo. La decisione di questo potere non ha volto. Ma non ha volto nemmeno chi potrebbe essere affetto da questa decisione. Nei documenti pubblicati da Wikileaks sui trattati commerciali in corso tra Stati Uniti ed Europa chi (o meglio, cosa) è il cittadino europeo o americano? Un consumatore (“consumer”). Come le automobili consumano benzina, come le vacche (americane) consumano grano, così noi consumiamo servizi, alimenti, ecc. In nome di Mammona tutto è concesso: la persona diventa consumatore.
Sulla base di questa premessa mi chiedo: a oggi Trump ha mostrato una concezione politica alternativa all’élite di potere?. La risposta è no. In particolare in materia sociale la concezione politica di Trump è completamente impersonale come quella dell’establishment a cui la sua politica ha dichiarato di opporsi. Ad esempio, Trump ha lasciato intendere a più riprese che la costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico risolverebbe il problema della droga e della criminalità in America. Ammesso ma non concesso che creda davvero a ciò che dice, il neo-eletto presidente evita nel modo più assoluto di considerare la tragedia umana di chi ricorre alle droghe o alla criminalità. Chi sono queste persone? Dove sono cresciute? Perché ricorrono a certi espedienti? (secondo fonti governative nel 2014 sono morti 29 cittadini americani al giorno per overdose da eroina per un totale di 10.574 persone). Trump evita queste domande e, al contempo, individua un capro espiatorio (gli immigrati messicani). La soppressione della dimensione umana inerente al problema della droga fa il paio con la sua riduzione a problema tecnico, sia esso la costruzione del muro o la deportazione degli immigrati.
Come ha notato David Brooks, uno degli editorialisti del New York Times, nella sua campagna Trump ha ripetutamente semplificato fenomeni umani complessi attraverso l’assolutizzazione di un singolo aspetto (quella che Brooks chiama “single identity”), ad esempio, lasciando intendere o dichiarando che gli afro-americani sono tutti poveri, oppure che i musulmani e i migranti messicani sono tutti pericolosi, ecc. (The Danger of the Dominant Identity, 18 novembre). Queste generalizzazioni sono mostruose. Perché? Perché sono spersonalizzanti. La concezione politica impersonale di Trump è perfettamente in linea con quella dell’élite di potere sconfessata dai suoi elettori.
Vengo ora alla questione razziale. Durante il primo dei tre dibattiti televisivi fra Trump e Clinton è stato chiesto ai candidati in quale modo sarebbero intervenuti per sanare la divisione razziale, mai netta come oggi nella recente storia americana. Benché i candidati dovessero rispondere in due minuti, entrambi avevano la possibilità di accennare, almeno, a una tragedia umana e sociale quotidianamente documentata sui mezzi mediatici e sotto gli occhi di tutti coloro che vivono in una grande città o agglomerato urbano negli Stati Uniti. Nel rispondere alla domanda Trump ha esordito così: “Clinton non vuole usare due parole: legge e ordine. Abbiamo bisogno di legge e ordine. Se non li abbiamo, non avremo una nazione”. Lo slogan (ribadito anche in altre sedi) “law and order” cosa sottende? Sottende che la tragedia umana legata all’escalation della cultura razzista nel Paese sia una “tragedia” di ordine tecnico, pratico. Una volta perfezionate le leggi e messo a punto l’addestramento delle forze di polizia, Trump lascia intendere che il problema razziale si possa risolvere. Ma non è vero. Beninteso, il rispetto della legge e dell’ordine sono fondamentali (ma quale uomo di buon senso non è d’accordo su questo punto?). Tuttavia, se il rafforzamento delle misure legislative su questo tema non avviene all’interno di una società in cui esiste già un dialogo tra etnie sociali, tale richiamo verrà necessariamente sentito come un’imposizione che, semmai, allargherà il problema.
Siccome il problema razziale è un problema umano e sociale, piuttosto che ricorrere in primo luogo al rafforzamento delle leggi, occorrerebbe individuare e sostenere le iniziative sociali di coloro che già promuovono una convivenza. Sono stato recentemente ospite a cena presso una comunità di Catholic Workers, il movimento fondato da Dorothy Day. C’erano una quarantina di persone, i membri della comunità, alcuni volontari e i poveri, la maggior parte afroamericani (chi residente presso la comunità, chi ospite quella sera). Prima di cenare due volontarie avevano preparato una canzone per uno degli ospiti della comunità che avrebbe lasciato la casa di lì a pochi giorni.
La canzone ripercorreva la storia e le passioni di quell’uomo. “Sono proprio sorpreso” ha detto l’uomo, sorridendo, alla fine della canzone. Nel considerare il problema del razzismo la politica nazionale o locale dovrebbe anzitutto individuare e promuovere iniziative sociali come quella dei Catholic Workers.
La natura del problema richiede tempo e disponibilità a porsi in ascolto di tutti gli esempi positivi che la nostra società offre. In buona o cattiva fede, consciamente o inconsciamente, Trump non ha colto la natura del problema. L’ha spersonalizzata. Le sue affermazioni politiche su questioni vitali per il Paese, come l’immigrazione o l’integrazione, sottendono dunque la stessa mentalità politica impersonale dell’élite di potere.
(2 – continua)