ELEZIONI USA/ Le emozioni di “The Donald” battono il programmino della Clinton
Trump, nel discorso alla convention repubblicana, ha parlato di programmi specifici? No, ha fatto molto di più. Tanto da preoccupare (e molto) Hillary Clinton. PAOLO VALESIO

Donald Trump, nel discorso conclusivo della convenzione nazionale del Partito repubblicano, ha pronunciato battute sessuali o razziali? No, grazie al cielo. Ha enunciato programmi specifici? No, grazie al cielo. I “programmi specifici” sono quelli che i politici da bar sport (che vanno presi sul serio) sinceramente dicono di desiderare, ma in realtà quello che vogliono è qualcosa che li trascini e convinca; e sono quelli che i politici di professione (per esempio, Hillary Clinton) agitano di fronte alla folla sapendo bene che si tratta di carta straccia.
Invece Trump, il professionista del non-professionismo, ha lavorato su quella che è la sua specialità: le emozioni. Per lavorare sulle idee (cioè, per usarle politicamente), è consigliabile non averne: basta orecchiarle. Ma con le emozioni è tutt’altra cosa: non ci si può lavorare se non le si prova veramente, non si possono orecchiare le emozioni (vuol dire che le emozioni sono più importanti delle idee? Boh. Comunque, questo è un altro discorso).
A un certo punto, “The Donald” ha usato (o meglio, il suo scrivi-discorsi ha usato) la venerabile figura retorica dell’anafora, vale a dire la “ripetizione della medesima parola, o gruppo di parole, all’inizio di due o più frasi successive” (come dice il Vocabolario Zingarelli). Provarla per credere: una ripetizione ben ritmata di immagini concrete è più potente di una conferenza (è irrazionale? E’ pericoloso? Non lo so, e non è colpa mia: so soltanto che è così, per lo meno dai tempi di Demostene a oggi). Dunque, l’anafora: per rendere concreti i pericoli della vita sociale contemporanea (che frase astratta…) Trump ha cominciato a enunziare una serie di nomi di giovani di buona famiglia assassinati per futili motivi da irregolari della società. Il crescendo stava funzionando bene (l’effetto dell’anafora, ovviamente, sta nell’accumulazione) — ma improvvisamente lui si ferma, e “sciupa l’effetto” (apparentemente): “No —esclama — non ce la faccio più, sono sconvolto dicendo queste cose!” (non è una citazione parola per parola,ma questa era in sostanza la frase).
Ora, i casi sono due — e due soltanto: o Trump è un grande attore, e ha costruito questo effetto a tavolino con il suo scrittorello; o è stato uno spontaneo movimento emotivo. La prima ipotesi attribuisce a Trump una consumata, raffinatissima abilità, che a me francamente non sembra egli possegga (e che comunque smentirebbe quelli che per un anno si sono trastullati a trattarlo da mentecatto); oppure è stato un momento di commozione autentica.
Che cosa voglio dire? Che l’esito delle elezioni più importanti quest’anno, e per alcuni anni a venire, si giocherà tutto in un paio di dibattiti faccia a faccia tra i due candidati; e non sulle enunciazioni programmatiche, ma sui momenti di emozione.
“Non ho un cane iscritto a questa gara” (I do not have a dog in this race, per dirla all’inglese), perché non prenderò parte alla rissa elettorale. E’ dunque spassionatamente che dico: di fronte all’interruzione improvvisa che ho descritto, la Clinton — che certamente stava seguendolo alla televisione — deve aver sentito un momentino di panico.
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