L’Assemblea Generale dell’Onu in corso in questi giorni a New York ci offre l’opportunità di riflettere su un aspetto che nelle Elezioni Usa 2016 viene spesso sottovalutato: l’importanza delle relazioni tra l’America e le nazioni straniere. Per un Paese influente come gli Stati Uniti cosa significa avere un candidato di nome Donald Trump come potenziale prossimo inquilino della Casa Bianca? Le dichiarazioni del Repubblicano contro gli immigrati provenienti dal Messico, le parole pronunciate contro i cittadini di origine musulmana, le accuse lanciate alla Cina in materia economica, possono portare a delle conseguenze nei rapporti internazionali degli Usa? Possibile, anzi scontato, se non fosse per i cosiddetti diplomatici. C’è una sorta di codice non scritto in vigore da ormai molto tempo tra i funzionari che si occupano di curare la diplomazia fra Paesi, e tra le prime e più importanti regole ve n’è una in particolare: evitare di intervenire nelle campagne elettorali degli altri Paesi. Questo non significa ignorarle: molte volte sono proprio gli Stati Uniti a volersi accertare che le consultazioni in alcuni Stati governati da dittatori non vengano truccate; altrettanto spesso osservatori internazionali verificano che i nascenti processi democratici in alcune zone considerate fragili si svolgano senza intoppi. Come ci si rapporta, dunque, con un candidato alla presidenza Usa che non sembra tenere conto delle regole comuni del quieto vivere? Secondo il portale Politico.com, che ha intervistato un diplomatico di un paese sudamericano protetto dall’anonimato, non sempre per i Paesi toccati dagli insulti di Trump è stato facile tenere a freno la lingua. Prendiamo il Messico ad esempio: Enrique Peña Nieto, lo stesso che poche settimane fa ha ospitato Trump a Città del Messico per un incontro conoscitivo dal quale sono scaturite molte polemiche (non ultima quella sulla costruzione del famoso muro al confine meridionale Usa), nel mese di giugno aveva paragonato la retorica del repubblicano a quella di Adolf Hitler e Benito Mussolini. Anche il ministro degli Affari Esteri della Germania, Frank-Walter Steinmeier, nel luglio scorso, come riporta la Reuters, aveva definito “pericolosa” per gli Stati Uniti, per l’Europa e per il mondo intero una politica basata sull’isolamento e la paura, in un esplicito riferimento ai progetti illustrati da Trump. Perfino il presidente della Francia, Francoise Hollande, è arrivato a definire “da voltastomaco” gli eccessi del tycoon mettendo in guardia da una sua vittoria, visto che questa, a suo avviso, potrebbe scatenare una reazione a catena con l’ascesa al governo di altri candidati conservatori. C’è anche, però, chi sceglie il silenzio, chi decide di non reagire pubblicamente alle provocazioni. Questi, secondo Jeremy Shapiro, il direttore di ricerca del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere, sono soprattutto Paesi che credono che alla fine Trump sarà sconfitto da Clinton e dunque non credono di avere nulla da perdere dal momento che non dovranno lavorare insieme a lui. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in corso a New York rappresenta anche un’occasione per rinsaldare i rapporti personali tra leader. In questo senso Hillary, dopo molti anni da Segretario di Stato (l’equivalente di quello che in Italia è il Ministro degli Esteri), ha potuto creare legami molto forti con i potenti del pianeta. Non è un caso che in questi giorni nella sua agenda di impegni siano stati inseriti dei meeting con il presidente egiziano al-Sisi (che incontrerà anche Trump), con il primo ministro giapponese Shinzo Abe, nonché con il capo di stato ucraino Porošenko. Sembra essere molto meno richiesto Trump, sebbene sia lui stesso a dire di aver ricevuto molti complimenti per il suo modo di agire da parte di diverse personalità presenti nella Grande Mela. E in effetti risponde al vero il fatto che anche Trump possa vantare il sostegno di alcuni leader internazionali; tra i più accesi sostenitori del candidato del Gop abbiamo ad esempio il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che come lui è apertamente ostile ai rifugiati, e soprattutto, sebbene non si sia mai esposto con una dichiarazione in tal senso, il presidente russo Vladimir Putin, che di certo ad una vittoria di Hillary Clinton preferirebbe quella di The Donald. Lo stesso non possono dire i vicini di casa dell’inquilino del Cremlino, i Paesi Baltici che in caso di vittoria di Trump rischierebbero di perdere la protezione di un alleato fondamentale come gli Usa all’interno della Nato. Durante il mese di agosto, infatti, era stato Trump ad avvisare i piccoli stati affacciati sul Mar Baltico, ovvero Estonia, Lettonia e Lituania, che se non avessero rispettato i propri obblighi verso gli Usa non sarebbe stato automatico l’intervento in loro difesa da parte degli Stati Uniti in caso di un’invasione della vicina Russia. Da qui la correzione del vicepresidente in carica Joe Biden, che aveva consigliato alle nazioni in questione di non prendere in considerazione le affermazioni avventate di uno dei candidati alla Casa Bianca: un modo per dire, siamo l’America, Trump non lo è. Ed è probabilmente questo il pensiero delle diplomazie che sono riuscite a rapportarsi con il repubblicano, dal momento che stabilire contatti con il magnate newyorchese, vista la struttura opaca della sua campagna elettorale, non è comunque semplice. La sensazione è che nessuno stia pensando seriamente all’ipotesi che Trump batta Hillary, preferendo procrastinare la questione al giorno immediatamente dopo il voto. Se dal 9 novembre parleremo del “Presidente Trump”, il mondo sarà senza dubbio un posto meno stabile. Avrà bisogno di un periodo di assestamento, di prendere le misure con il modo di agire dell’uomo che rappresenterà gli Stati Uniti d’America. E a quel punto pensiamo che gli esperti del settore potrebbero trovarsi a riscrivere le norme che regolano il codice diplomatico: sempre che di diplomazia ne serva ancora, in un mondo che vede Trump come presidente Usa. (Dario D’Angelo)