ITALIA IN GUERRA?/ “Gli Usa vogliono portarci in Siria, il paese dica no”

- Mario Mauro

Ieri l'esercito di Assad si è diretto verso Afrin, al confine con la Turchia. Intanto ci sono pressioni degli Usa per portare in guerra l'Italia. MARIO MAURO, ex ministro della Difesa

siria_guerra_11_lapresse_2018 Bombardamenti alla periferia di Damasco (LaPresse)

In Siria è “tutti contro tutti”. Come ha chiarito il nunzio apostolico Zenari, i gruppi minoritari siano quelli più a rischio e i “cristiani lo sono in maniera particolare, avendo anche scelto di non portare armi”. “L’Isis era solo una parte seppure grave del problema siriano. Ora, c’è una sorta di tutti contro tutti”, ha proseguito monsignor Zenari, sottolineando che “gli aiuti umanitari riescono a passare con il contagocce, centinaia di bambini vivono in una situazione di assoluta malnutrizione, la gente sopravvive cucinando brodaglie fatte di foglie di alberi: una cosa impressionante”. E ancora: “Le immagini che giungono sono agghiaccianti e al livello sanitario la situazione è al collasso: sono più le persone che muoiono per mancanza di cure ospedaliere e di medicine — ha concluso Zenari — di quelle cadute a causa delle bombe e dei colpi di artiglieria”.

Ma a cosa fa riferimento monsignor Zenari quando parla di un contesto dove tutti sono contro tutti? Questa definizione che può apparire semplicistica legge invece ed in profondità la complessità dello scenario siriano e non fa riferimento appena alla lotta tra i sostenitori di Assad ed alle variegate ed a volte posticce opposizioni. Bensì agli attori esterni che si abbattono impietosi con le loro trame e la loro potenza bellica sul paese, mentre la Turchia porta avanti la sua politica di interdizione nei confronti delle minoranze curde sfiorando il collasso delle relazioni con gli Usa e lo scontro diretto con le truppe di Damasco, e Israele riprende le sue manovre anti-iraniane e rivolge i suoi strali con la complicità saudita nei confronti del braccio operativo degli ayatollah, e cioè Hezbollah libanese. 

L’aspetto di maggiore criticità e di maggiore impatto sul piano interno, infatti, continua a essere costituito dal massiccio coinvolgimento delle milizie di Hezbollah a sostegno del fronte governativo del presidente Bashar al-Assad in Siria. Se in una prima fase, tra il 2011 ed il 2012, questo impegno si era di fatto limitato ad azioni sporadiche e clandestine nei territori al confine siro-libanese, in modo particolare lungo la Valle della Bekaa, a partire dal 2013 le milizie del Partito di Dio hanno rafforzato la loro presenza nello scenario siriano. Tale scelta è stata determinata dall’andamento del conflitto sempre più a sfavore delle forze lealiste, congiuntura che rischiava di mettere seriamente a repentaglio gli interessi strategici di Hezbollah in Siria. Lo scoppio della crisi siriana e la perdita da parte di Assad del controllo di alcuni snodi stradali nell’ovest della Siria nel corso del 2012 hanno rappresentato una fortissima criticità per le milizie di Hezbollah, che hanno incontrato delle serie difficoltà nel continuare a gestire in maniera ottimale i flussi di armi provenienti da Teheran e che attraversavano la Siria. Così, in stretto concerto con Teheran, Hezbollah ha impiegato i propri uomini al di là della frontiera siro-libanese, con l’obiettivo di recuperare il terreno perso a favore del fronte ribelle e, più in generale, di garantire la tenuta del regime di Damasco. Tale esigenza ha portato gli uomini del Partito di Dio ad operare in teatri lontani dai tradizionali luoghi di azione e ad assumere un ruolo sempre maggiore nella riorganizzazione e nell’addestramento delle Forze di Difesa Nazionale (Fdn) e, più in generale, di coordinamento delle attività delle numerose milizie sciite. 

Ciò nonostante, è bene sottolineare come tale scenario sia da riferirsi esclusivamente al contesto operativo siriano. Infatti, al momento, appare difficile ipotizzare il trasferimento di tali capacità operative al teatro libanese, in virtù della costante attenzione di Israele. Quest’ultimo, infatti, continua ad impiegare l’aviazione per eliminare qualsiasi potenziale minaccia alla propria sicurezza nazionale proveniente al di là dei suoi confini nord-orientali e per distruggere i convogli di armi e rifornimenti destinati alle milizie di Hezbollah. L’ultima operazione che, in ordine cronologico, ha coinvolto la forza aerea israeliana sembra aver avuto luogo la notte tra il 21 e il 22 febbraio scorso, durante la quale dovrebbero essere stati coinvolti alcuni F-16I Sufa per colpire depositi e postazioni di Hezbollah nel quartiere al-Katif di Damasco.

Immagini televisive o fotografiche non confermano l’operazione, le forze dell’esercito israeliano (Idf) non si sono espresse al riguardo e non è chiaro se gli israeliani abbiano in quest’occasione impiegato missili rilasciati dallo spazio aereo israeliano o libanese, come accaduto altre volte, o siano entrati nei cieli siriani in barba alla difesa aerea gestita dai russi. 

A prescindere da queste considerazioni, c’è da notare come, inevitabilmente, l’evoluzione in chiave regionale di Hezbollah abbia portato al gruppo dei vantaggi, ma anche delle innegabili problematicità da gestire. Infatti, la scelta di Nasrallah a sostegno del regime di Damasco, oltre a esporre il Partito a forti critiche da parte del fronte politico sunnita, continua a generare non pochi malumori all’interno dei suoi sostenitori in virtù dei costi eccessivi non solo sul piano delle risorse, ma anche in termini di costi umani. In questo disegno, il ruolo di Hezbollah dovrebbe restare comunque centrale, circostanza che andrebbe ad innescare nuove variabili, difficili da interpretare al momento, per il futuro. 

Nulla di più facile cioè che il terreno dello scontro si sposti sul terreno di un confronto diretto tra Tel Aviv e Teheran, ad ulteriore discapito della già fragile sovranità siriana, determinando un movimento nella regione sempre più problematico per gli interessi e le strategie anche di Russia e Stati Uniti. Il riversarsi inevitabile di queste complesse variabili geostrategiche sul territorio siriano altro non fa che diventare ferro e fuoco, miseria e distruzione per milioni di persone inermi. Ecco cosa significa tutti contro tutti. 

L’incapacità di produrre le condizioni per una ripresa di iniziativa politica dovrebbe preoccupare innanzitutto l’Europa destinata altrimenti ad essere travolta dallo spasmo mediorientale. Tutti contro tutti: turchi contro curdi e governo siriano, russi contro Isis e loro alleati del Golfo, sauditi ed Israele contro iraniani ed Hezbollah, Assad contro le milizie sunnite e contro il pregiudizio occidentale, Stati Uniti contro Russia e Assad. 

In questo contesto cinico e feroce  sfiorisce e muore La Rosa di Siria. E’ uno dei fiori più antichi della storia, conosciuto per la sua bellezza e per le sue virtù terapeutiche. “Ma la rosa di Damasco, o rosa damascena, sta morendo. Nella città siriana che le ha dato il nome, e nei campi circostanti dove si coltiva, la rosa inizia a non fiorire più. La rosa di Damasco è agonizzante”, spiega il coltivatore Jamal Abbas proprietario di un campo a el-Mrah, a circa 60 chilometri dalla capitale siriana. Questo è un villaggio noto per la produzione della rosa dai trenta petali ma le terre coltivate sono diminuite del circa 50 per cento negli ultimi anni. La tradizione della raccolta si sta perdendo perché intere famiglie sono fuggite per evitare i combattimenti tra regime e ribelli. La produzione è crollata. “Siamo passati dalle 80 tonnellate del 2010 alle 20 del 2015. Tutta colpa della guerra che sta distruggendo il raccolto più della siccità”, così Hamza Bitar, agricoltore di 43 anni. La rosa di Damasco è un fiore millenario, esportato in Europa dove i petali vengono essiccati per poi estrarre gli oli essenziali. Per i produttori e commercianti siriani l’agonia del fiore è la metafora di un paese distrutto dal conflitto che ha fatto oltre 500mila morti e milioni di rifugiati.

I mesi che verranno saranno decisivi perché in Siria tornino a fiorire le rose e sarebbe un imperdonabile errore che il governo italiano si piegasse al frettoloso invito americano ad essere militarmente presenti nello scacchiere, dimenticando di essere stato il nostro paese in un recente passato il primo partner commerciale della Siria e soprattutto non facendo tesoro degli errori fatti tempo addietro dall’occidente tutto nel teatro iracheno. 

Quando il gioco è “tutti contro tutti” non siamo al trionfo della irrazionalità. Semplicemente la regia che paventa il caos è nelle mani di “menti sopraffine” che puntano ad interessi che certo non rispecchiano il bene, la libertà e la giustizia per i popoli.





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