BREXIT/ 1. Cosa può accadere dopo le dimissioni di Davis e Johnson

- Paolo Annoni

Dopo le dimissioni di David Davis e Boris Johnson è lecito chiedersi cosa può cambiare nelle trattative sulla Brexit. Ue e Uk non hanno molte alternative, spiega PAOLO ANNONI

brexit_europa_londra_lapresse (LaPresse)

Dopo le dimissioni del ministro per la Brexit, David Davis, annunciate questo weekend, ieri anche il ministro degli Esteri inglese Boris Johnson ha deciso di lasciare il governo. La “polemica” che ha condotto alle dimissioni di Davis è dovuta a una crescente insofferenza per lo stato delle trattative tra Regno Unito e Unione Europea; in particolare si è fatta strada, almeno nei dimissionari, la percezione che l’accordo finale che si stava delineando avrebbe nei fatti disatteso gli obiettivi del referendum, che sarebbe stato troppo “soft” e che non avrebbe lasciato al Regno Unito la “libertà” cui si aspirava uscendo dall’Unione.

Il mercato ha reagito buttando giù la sterlina un po’ per il riflesso incondizionato che accompagna sempre l’apertura di fasi di incertezza, un po’ per la “paura” che si faccia strada un approccio più duro nelle trattative con l’Unione Europea e diminuiscano le possibilità di un accordo soft che depotenzierebbe in maniera sostanziale la Brexit.

Mentre scriviamo emerge l’ipotesi che la leadership di Theresa May possa essere messa in discussione, anche se si deve notare che solo meno della metà dei parlamentari conservatori ha votato per il “leave” e non è facile trovare una maggioranza compatta di duri e puri della Brexit. La questione si fa ingarbugliata, ma ci sembra ci siano alcuni punti fermi.

Una premessa necessaria è che nessuno può predire con certezza gli effetti della Brexit per due ordini di motivi. Il primo è che di fronte a rotture così profonde dello scenario è sempre difficile “estrapolare” partendo dal contesto attuale; in uno scenario completamente nuovo è problematico racchiudere tutti gli effetti che oggi siamo in grado di considerare. Il secondo è che una scommessa come la Brexit, se effettivamente presa, non si misura con i risultati dei primi due trimestri e probabilmente nemmeno con quelli dei primi due anni. Più l’orizzonte temporale si estende più facciamo fatica a fare i conti.

Gli scenari sono tre. Una Brexit “soft” in cui si accontenta sia l’Unione Europea che la Gran Bretagna. È uno scenario politicamente complicato perché se l’Unione Europea concedesse troppo rischierebbe di dare a tutti gli altri nell’Unione incentivi sbagliati, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale, quella europea di maggio 2019, in cui c’è il rischio concreto di una vittoria dei “populisti”. Deve passare l’idea che chi rompe con l’Unione paga e che non c’è un “purgatorio”, altrimenti le spinte centrifughe aumentano; è una constatazione naturale e inevitabile e non una valutazione di merito.

Se invece la Gran Bretagna concede troppo il problema è interno alla Gran Bretagna, come vediamo proprio in questi giorni. Con un piccolissimo corollario. Convocare un referendum di cui si parla per almeno un anno, far votare la gente in massa e poi dire “scusate abbiamo scherzato” e comunque voi siete troppo stupidi per capire cosa è meglio per voi, apre scenari “interessanti”. A quel punto sarebbe davvero difficile contestare le tesi di chi sostiene la mancanza di democrazia delle istituzioni europee o che l’Europa sia un organismo impossibile da modificare per via elettorale. Ci rendiamo conto che stiamo estremizzando, ma il concetto è chiaro. Chiedere un voto e poi far finta che non sia avvenuto oppure continuare a votare fino a che non esce il voto “giusto” rischia di produrre disastri. Forse non si doveva votare, però si è votato e non si può fare finta che non sia successo. All’Europa forse converrebbe essere conciliante, ma questo viene impedito dalla sua attuale debolezza politica. Essendo fragile non ha la sicurezza di chi è certo della bontà del proprio progetto.

Quanto sopra vale, in sostanza, anche per una riedizione del referendum sulla Brexit. Gli unici che potrebbero chiederlo, senza essere tacciati di essere sostanzialmente anti-democratici, sono quelli che l’hanno proposto e vinto; molto improbabile non foss’altro per le conseguenze politiche.

Rimane lo scenario inesplorato di una “hard Brexit” che oggi viene quasi unanimemente ritenuta la fine del Regno Unito. Secondo noi non è così chiaro, perché il mercato interno inglese è molto appetibile a cominciare proprio dalle industrie europee. Il Regno Unito ha il potere contrattuale che deriva da molti milioni di consumatori potenziali ricchi o benestanti. In una fase poi in cui si criticano i dazi come disastrosi per l’economia o come prodromi di guerre future e si auspicano commerci globali senza barriere sarebbe davvero singolare che l’Unione Europea facesse la “dura” con il Regno Unito. Ma come? Critica Trump e gli Stati Uniti per i loro dazi e poi li mette al Regno Unito perché gli inglesi “sono usciti dall’Europa”? O perché non vogliono gli immigrati come due terzi dei Paesi europei tra cui alcuni che già oggi disattendono Schengen unilateralmente? Se gli Stati Uniti di Trump danneggiano solo se stessi lo stesso varrebbe un domani per l’Europa…

La verità, forse, è che buone relazioni sono nell’interesse di tutti e che un accordo equidistante tra richieste inglesi ed europee sia la soluzione migliore. Peccato che rimanga politicamente difficile sia per ragioni interne al Regno Unito, sia per ragioni interne all’Europa.





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