Sembra ormai evidente come la geopolitica, a livello globale, ruoti attorno a tre protagonisti, sia pure con strategie diverse: Stati Uniti, Cina e Russia. Gli altri attori a livello locale sono poco o tanto costretti a dipendere dalle decisioni e dalle alleanze dei tre leader. Durante la Guerra fredda, con la contrapposizione di due blocchi chiusi, molti Paesi avevano scelto la strategia del non allineamento, che consentiva una rimarchevole libertà di azione giocando, per così dire, su due tavoli. La globalizzazione ha reso difficile anche questa strategia, che però potrebbe ridiventare fattibile se l’attuale “trilogia” si trasformasse in una concreta multipolarità, ipotesi per il momento solo di studio.
Per la verità, esiste tuttora un “Movimento dei Paesi non allineati”, che raggruppa più di un centinaio di Stati, nessuno europeo, con la Cina membro osservatore. Un assembramento che non sembra molto incidente, anche perché raggruppa diverse realtà tra loro conflittuali: una specie di duplicato dell’Onu e altrettanto inefficace. Si potrebbe dire la stessa cosa di tutte le associazioni generali di Stati, che paiono sempre di più contenitori per alleanze di tipo locale o più specifico. E, comunque, a geometria variabile nello spazio e nel tempo, a seconda delle convenienze dei governi che si succedono.
C’è da chiedersi quale sia in un simile contesto il ruolo dell’Unione Europea, oltre alla sua importanza dal punto di vista economico. Come area di libero scambio, l’Ue è una protagonista rilevante nell’economia internazionale, sempre più segnata dalle varie unioni doganali che si stanno formando, per esempio attorno a Cina e Russia.
Qui sorge il problema: attorno a che entità politica ruota l’area di libero scambio europea? Al di là di tutta la retorica a tal proposito, l’Unione Europea come entità politica è di là da venire, ammesso che sia di per sé possibile, date le enormi differenze tra i vari Stati sotto numerosissimi profili. L’assetto federale degli Stati Uniti potrebbe essere preso ad esempio, ma un’analisi realistica rende questa ipotesi praticabile solo in tempi molto lunghi e sufficientemente “sereni” per poter affrontare questo difficile percorso. Gli enormi problemi che sta affrontando l’euro sono la dimostrazione che in questo campo i tempi brevi sono permessi solo alle dittature, e anche in questi deprecabili casi permangono gravissime difficoltà. Un esempio è dato dall’attuale sistema autoritario che governa la Federazione russa e perfino la dittatura centralizzata cinese non è al riparo da rischi.
Pur nella molteplicità di lingue parlate sul loro territorio, Stati Uniti, Russia e Cina hanno una lingua ufficiale che ne rappresenta l’unità statale, se non nazionale. L’Unione Europea ha attualmente 24 lingue definite “ufficiali”; erano solo quattro nel 1958. Ciò porta il Parlamento europeo ad affrontare 552 combinazioni linguistiche, dato che ogni parlamentare può esprimersi nella propria lingua e i suoi interventi devono essere tradotti nelle altre 23 lingue. Per facilitare le traduzioni, gli interventi vengono inizialmente tradotti in “lingue ponte”, attualmente inglese, francese e tedesco. Dopo l’uscita dell’Uk dall’Ue, quale lingua sostituirà l’inglese? Chi prevarrà tra le due lingue restanti più parlate, spagnolo e italiano? Ci adatteremo anche qui alla diarchia franco-germanica? O rimarrà l’inglese, lingua ponte per eccellenza? Domande che, come si vede, non riguardano la glottologia, bensì i rapporti di forza politica.
A parte i costi che tutto ciò comporta, questo esteso multilinguismo rappresenta molto bene l’eterogeneità interna all’UE praticamente in tutti i settori, messa sempre più in evidenza dalle pressioni esterne. In questo momento, solo per citarne alcune, l’Unione è sottoposta alle minacce daziarie di Trump e alle suadenti proposte di Pechino, che stanno creando divisioni tra i vari Stati, i cui interessi sono divergenti, come lo sono nei confronti delle sanzioni alla Russia. Attorno al dualismo Germania-Francia, si stanno creando blocchi di Paesi, alcuni espliciti, come il Gruppo di Visegrad, altri “naturali”, come quelli del Nord Europa, mentre i Paesi mediterranei procedono isolati e, spesso, “l’un contro l’altro armati”.
In queste condizioni sarebbe più ragionevole tornare alle origini e mantenere l’Unione come area di libero scambio, lasciando alla iniziativa dei singoli Stati la costituzione di aggregati di maggior consistenza economica, politica e istituzionale. Ciò significherebbe anche il graduale smantellamento di quelle strutture burocratiche che paiono essere utili, sino a prova contraria, solo a interessi particolari. Non sarebbe un cedimento ai “sovranisti”, bensì un’applicazione anche agli Stati di quel principio di sussidiarietà di cui tanto si straparla, anche in sede europea.