ORANGE COUNTY (California) — La vista è splendida, la brezza del mare che arriva dalla parte opposta ai nudi monti, ancora incolti perché inedificabili — il terreno cede in certe zone, costruire è impossibile o troppo costoso —, questa California è salute e piacere costante.
Ma quando una “comunità” si rinchiude dentro a un cancello, e si sparge sui colli una volta aridi, ora decorata con alberi e fiori che resistono alla siccità, con belle ed eleganti ville color sabbia e tetti di terracotta, cosa significa?
Siamo nel Sud, dove l’influenza spagnola si osserva al di là dei nomi di strade o luoghi, come Point o Punta Loma dove si trova la statua del portoghese Juan Rodríguez Cabrillo (João Rodrigues Cabrilho), al servizio della Spagna nel 1542, che fu il primo esploratore a mettere piede su quello che sarebbe diventato il West degli Stati Uniti, ora San Diego (la città più a meridione dello Stato): là, mi dissero, c’è il Messico, si vede nelle giornate più limpide dalla punta più alta di questa penisola, ma è un paese che non amiamo. Le mura sono invisibili, sono culturali. Il dominio anglosassone, vincitore nelle passate e non troppo distanti lotte territoriali, si fa padrone, ma non riesce a cancellare le origini spagnole. Soprattutto, da quando nei recenti decenni le ondate di immigranti sono diventate tsunami. Amici meno preoccupati dell’invasione, dissero: Noi qui, siamo nel Messico!
Mi torna in mente il collega portoricano (circa 1970), con il quale si parlava della perdita spagnola del territorio nordamericano, il quale molto sicuro di sé, ad un certo punto della conversazione proclamò: Ah, ma noi ci riprenderemo questa terra semplicemente ripopolandola. Passarono i decenni, e la seconda lingua che era fino al dopoguerra il francese — si insegnava in tutte le scuole: le pubbliche e le private (perché era la lingua della intellighenzia) — ebbe un tracollo, perse il potere e si fece strada velocemente lo spagnolo.
Tale storico cambiamento, non amato da chi si identificava ancora con il monolinguismo inglese (e francofilo per l’eleganza di quella lingua, ma da usare poi solo qua e là, quasi come decorazione), fece scattare un dibattito sulla lingua nazionale. Mancava nella Costituzione una dichiarazione linguistica. Fu una discussione che accese le passioni per alcuni anni mentre la crisi d’identità americana cresceva e la popolazione latinoamericana avanzava irrefrenabilmente. Non si parla più del massacro causato nell’America del Sud nel secolo ventesimo (specchio di quanto accaduto in un altro continente a Sud dell’Europa?). Si escogitano piani e strategie assurde per arrestare la valanga, che non si ferma.
E non ci sono mura o cancelli per chi vuole proteggersi dallo straniero; i guardiani delle grandi, splendide ville custodite 24 ore per 7 giorni, e le telecamere davanti alle porte (alle quali si può accedere in tempo reale con il proprio cellulare per vedere se stessi prima, o l’intruso dopo) dei villini più modesti, nulla può cancellare il sospetto dell’altro che si intravede sottopelle da quando sbarcarono i primi dalla mitica Mayflower. E si barricano in casa e in macchina; escono per andare a teatro o al museo un paio di volte ogni due o tre mesi; certo si va in palestra ogni due giorni ma in macchina, mai a piedi. Le strade sono vuote, non circola la gente, non c’è chi salutare incontrandosi per caso nelle zone residenziali. E si fa tutto online, così non c’è bisogno di uscire neppure per fare la spesa.
Sono diventati bunker queste abitazioni lontane dalle grandi metropoli? È così vasta la paura in questa America che teme di perdersi in un meridione latino con cui non vuole riconoscersi? Che crea i suoi eroi oggi più che mai con tale smania che il senatore — John McCain — che era troppo di destra per alcuni, e che per molti aveva lottato in una guerra notoria, ora diviene simbolo di tutto ciò che è “true American”? Abbiamo ascoltato le parole della figlia Meghan McCain, e abbiamo letto che il funerale del senatore era un “meeting” contro l’imperatore nudo, dove un Obama e un Bush si sono uniti per attaccare il celebre assente.
In questa nazione incerta, è curioso notare che se si chiede qual è l’inno nazionale, nessuno sa bene se sia The Star Spangled Banner (militaresco e poco orecchiabile) o America the Beautiful (romantico e preferito). Allora viene voglia di suggerire The Impossible Dream. Tutti commossi nel pubblico del teatro in Pasadena, dove una eccellente e molto popolare operetta musicale, The man of La Mancha (1965) — reinventata in un’interessante regia pirandelliana da Julia Rodriguez-Elliott, in cui il marito protagonista Geoff Elliott era Cervantes e anche Don Chisciotte in una prigione dove i compagni di sventura si scambiavano i ruoli e diventavano personaggi del grande romanzo ottocentesco — si concludeva con la famosa canzone (che nessuno ha scordato), cantata dal coro di tutti gli attori in tal modo che l’applauso finale fu un’ovazione così totale che ci fece balzare in piedi, non senza alcune lacrime versate, perché ci sembrò di ascoltare un inno nazionale, e sullo sfondo Walt Whitman che sussurrava “I hear America singing”. È questa la vera America?