Si può parlare di fine vita quando tutto va bene? Quando si sta bene? Sette anni fa frequentai un corso propedeutico serale di teatro alla scuola Paolo Grassi di Milano. Una delle esperienze più belle della mia vita. Un giorno il maestro ci chiese di scegliere un tema qualsiasi e fare un dialogo improvvisato. Io, insieme a un ragazzo, scegliemmo di parlare di fine vita. L’improvvisazione sarebbe consistita nel convincere una donna quadriplegica a non richiedere il suicidio assistito.
Pensai che sarebbe stato semplice. Per diverse vicende drammatiche successe e un’educazione cristiana ricevuta, avevo sempre pensato che la vita valesse la pena di essere vissuta fino alla fine e in qualsiasi condizione uno si trovi. Pensai che facilmente sarebbe andata come prevedevamo.
Ma non andò così. Quando gli dissi: “Non ce la faccio più. Mi manca soprattutto nuotare”, lui mi rispose: “Ma cosa vuoi che sia”. Quella fu la scintilla che cambiò radicalmente il dialogo. Mi infervorai e, dopo venti minuti, riuscì solo a convincermi a richiedere il suicidio. Tanto ero arrabbiata, uscii dalla stanza.
Tanti furono gli applausi e la commozione. Come se fosse stato un gesto eroico, un atto rivoluzionario. Ero contenta di aver fatto commuovere i miei compagni, ma rimasi frastornata. Di eroico e rivoluzionario non c’era nulla. Quella sera volevo essere aiutata, capita, salvata – dal latino “salvatus”, cioè “protetta” – e invece mi immedesimai davvero in una donna che voleva morire, e da quell’uomo dall’altra parte non trovai com-passione – dal latino “compassio”, calco del greco “συμπάθεια” (sumpatheia), composto di σύν [sun] e παθητικός [patheticos]: patire insieme –.
Sembra un episodio banale, ma io da quel giorno non riuscii più a riflettere sul fine vita allo stesso modo. Quella drammaticità provata non mi fece più vedere l’aut-aut di questa scelta. Eroica o indegna. Progressista o prosaica. No. Una scelta come questa, di chi soffre tanto da voler togliersi la vita e di chi soffre tanto ma sceglie di vivere, non può pretendere un aut-aut.
Si può parlare di fine vita quando tutto va bene? Quando si sta bene? Due anni dopo il corso, nel 2020, lessi Il Colibrì, un libro di Sandro Veronesi che quell’anno vinse il Premio Strega. La storia intreccia il passato, presente e futuro di un medico oculista, Marco Carrera, che vive diversi drammi. Dal suicidio di sua sorella, alla morte dei suoi genitori e sua figlia, al divorzio con sua moglie, al rapporto difficile con suo fratello e un suo amico, fino a un amore impossibile, Luisa.
Marco è il colibrì, chiamato così da suo padre quando era bambino per la statura bassa. Poi, per diverse cure, cresce ma rimane il colibrì “perché, come il colibrì, mette tutta la sua energia nello stare fermo”. Fermo ad aspettare l’amore della sua vita, Luisa. Fermo ad accudire suo padre Probo, sua madre Letizia e sua figlia Adele. Fermo ad aspettare le lettere di risposta di Luisa e suo fratello Giacomo. Fermo ad aspettare di scoprire il fallimento del matrimonio con Marina. Fermo ad aspettare che sua figlia torni dalle arrampicate. Fermo ad aspettare quella maledetta telefonata che gli dirà che sua figlia è morta.
Ma, pur stando fermo, riesce “ad avanzare così tanto, così dolorosamente senza crollare”. Fino a scoprire che tutto aveva avuto uno scopo: l’accudimento di sua nipote Miraijin – “l’uomo nuovo” – colei che era nata “per cambiare il mondo”. Colei da cui “l’umanità sarebbe ricominciata”.
Ma c’è un che di contraddittorio nel finale. Dopo avere accudito sua nipote per diciott’anni, scopre di avere un tumore al pancreas e, invece che stare fermo, accelera la sua morte. Con una combinazione di midazolam e propofol, procurata da sua nipote Miraijin, pone fine alla sua vita prima del previsto.
Verso la fine, quando parla di un possibile ripensamento, Veronesi scrive:
“Sesto pericolo, maledizione: ripensarci. Forse è anche quello che sperano tutti, intorno a lui, che ci ripensi. Che faccia finta di credere alla guarigione, che ricominci la terapia, che ricominci a lottare.
A patire nausee interminabili, dissenterie, afte in bocca, che non possa più muoversi dal letto, che diventi una larva, che gli venga il decubito, che Miraijin, invece di salvare il mondo, debba correre a noleggiare un materasso ad acqua e gli olii, e i linimenti, e l’infermiera di notte, e il respiro gorgogliante, e la morfina, per bocca, per vena, sempre più spesso, sempre di più, perché c’è l’assuefazione, ma più di tanta non si può, lo dicono i protocolli, e lui che prega Miraijin di “portarlo via”, come Probo, e Miraijin che invece di salvare il mondo si ritrova costretta a…”.
“Costretta a…” Non mette neanche un verbo. Un’azione. “Costretta a…” Costretta a prendersi cura di suo nonno come lui aveva fatto con lei per diciott’anni? Costretta a patire insieme a lui? Qual è l’azione, il verbo che scandalizza tanto Veronesi da non metterlo?
E salvare il mondo non è forse anche aver cura dell’altro? E i parenti, amici, di chi oggi vuole vivere fino alla fine sono veramente “costretti” ad avere com-passione di loro?
Il Colibrì è un libro struggente, ma c’è un che di ideologico nella scelta finale. Qualcosa di appiccicato, che non torna. Qualcosa di non compassionevole come un “Che vuoi che sia”.
Si può parlare di fine vita quando tutto va bene? Quando si sta bene?
Io non potrò mai immedesimarmi davvero nel dolore di Laura Santi che sta lottando per chiedere il suicidio assistito e neppure nel dolore di chi lotta perché sia data loro la possibilità di continuare a vivere degnamente.
Credo però che sì, si possa parlare di fine vita anche quando tutto va bene. Anche quando si sta bene. Ma solo con passione e protezione. Credo sia questa la strada del non aut-aut. Tra il “che vuoi che sia” e la condiscendenza totale. Solo l’aver com-passione e la protezione sono atti fermi, eroici e rivoluzionari.