EX ILVA/ Cosa vuol far il Governo della siderurgia italiana?

- Giuseppe Sabella

La situazione dell'ex Ilva di Taranto continua ad aggravarsi. Per il Governo si tratta di fare una scelta strategica, che va oltre il tema delle risorse necessarie

ilva_taranto_impianti_1_lapresse_2018 Impianti Ilva di Taranto (LaPresse)

Dopo la mobilitazione dei lavoratori di meno di due settimane fa e dopo l’ennesimo grido di allarme da parte dei sindacati – in particolare di Roberto Benaglia (Fim-Cisl) che in un’intervista recente dice “Ilva è a rischio Alitalia” – è il ministro dello Sviluppo economico Adolfo Urso a usare parole che non solo non possono passare inosservate ma che preludono, a questo punto, a un auspicabile intervento del Governo per recuperare una situazione che, giorno dopo giorno, sembra sempre più compromessa.

Intervenendo martedì sera a “Porta a Porta”, il titolare del Mise si è così espresso: “Siamo su un treno in corsa che sta deragliando. Contravvenendo agli accordi presi, il siderurgico produce tre milioni di tonnellate, ne avrebbe dovuti produrre sei. L’impianto si sta spegnendo”.

Tuttavia, per meglio comprendere la situazione attuale, può essere utile ricordare alcuni passaggi che riguardano la ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia (ADI).

A giugno 2022, il Governo Draghi – di concerto con Arcelor-Mittal – ha deciso di rinviare di due anni l’ingresso definitivo dello Stato al 60% nel capitale di Acciaierie D’Italia. L’esecutivo guidato da Mario Draghi non aveva il tempo per guidare un’operazione di questa complessità e ha ritenuto di rimandare le scelte al Governo che è seguito alle elezioni del 25 settembre. L’accordo per il rinvio ha previsto una proroga al 31 maggio 2024 dei termini, precedentemente fissati al 31 maggio 2022, per il verificarsi delle condizioni a cui è vincolato l’obbligo di acquisto dei complessi aziendali da parte di ADI. Nello stesso tempo, Lucia Morselli confermava gli obiettivi per il 2022 a 5,7 milioni di tonnellate di acciaio prodotto.

La realtà dei giorni nostri però è ben diversa. Anzitutto, nello stabilimento tarantino – che al momento è piuttosto lontano dai 5,7 milioni di tonnellate di acciaio previste a fine anno (Urso dice 3, secondo fonti sindacali siamo a 4) – 3/4 della forza lavoro è in cassa integrazione, non si fanno manutenzioni, continuano a verificarsi incidenti e, soprattutto, il progetto di trasformazione del sito è ormai abbandonato.

Nel corso della legislatura precedente, tutti e tre i Governi che si sono alternati non sono riusciti a rilanciare il polo tarantino. Certo, dopo il contenzioso con Mittal per via della revoca dello scudo penale, la situazione non poteva che franare. Ma quando Invitalia ha acquisito quote dal colosso franco-indiano dando vita ad ADI, l’aspettativa era quella di un nuovo ciclo per l’acciaio italiano. E, invece, niente di tutto questo. Soltanto, ad agosto col DL aiuti bis, un aumento di capitale da 1 miliardo di euro per ADI attraverso l’agenzia Invitalia per gestire i grandi problemi di liquidità e una precaria situazione economico finanziaria. Si consideri che ad agosto i debiti con la sola Eni erano di circa 300 milioni.

Si tratta di un dossier molto scottante per il Governo guidato da Giorgia Meloni, ma è anche vero che, più che un problema di risorse (ci sono i fondi del Green Deal e del Next Generation Eu) si tratta di chiarirsi le idee: cosa vuol fare l’Italia della sua siderurgia? In una situazione economica sempre più orientata all’autonomia industriale ed energetica, è chiaro che non ha più senso andare a compare acciaio in Cina o in Turchia.

Twitter: @sabella_oikos

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