Il Governo ha convocato per domani sera i sindacati dopo che nell’incontro a palazzo Chigi di lunedì ArcelorMittal si è detto indisponibile ad “assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza” in Acciaierie d’Italia, la società che ha in gestione gli stabilimenti ex Ilva tra cui quello di Taranto. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha intanto voluto rassicurare sul fatto che “il Governo e quindi lo Stato è in campo, oggi più che mai, per salvare e rilanciare la siderurgia italiana, anche e soprattutto quella rappresentata dall’ex Ilva di Taranto, da quello che era il più grande sito siderurgico europeo”. E Giulio Sapelli, economista, professore emerito di storia economica alla Statale di Milano, non ha dubbi: “Se l’Italia vuol rimanere nel novero delle potenze industriali, l’ex Ilva di Taranto deve continuare a esistere”.
Cosa bisognerebbe fare per rendere concreto questo obiettivo? Nazionalizzare l’ex Ilva?
La via migliore sarebbe quella di una partecipazione maggioritaria dello Stato, con la presenza di uno o più soci privati. Il tutto affidato a dei manager provenienti dalla siderurgia.
Di fatto, bisognerebbe riproporre il modello che vedeva attualmente soci lo Stato e Arcelor Mittal, che però ha fallito?
Il modello era giusto, ma era sbagliato il socio privato. Venne compiuto un errore, sulla base di profonde pressioni che un giorno o l’altro studieremo, quando la gestione dell’ex Ilva, dopo l’ingiusta estromissione dei Riva, che si erano anche accollati degli investimenti in materia ambientale, venne affidata ad Arcelor Mittal, il cui obiettivo era distruggere l’ex Ilva. In fondo quello che si fece a Bagnoli, come raccontato da Ermanno Rea nel romanzo “La dismissione”, fu chiaro: il Governo scelse di svendere impianti a Cina e India per una cifra irrisoria rispetto agli investimenti effettuati pochi anni prima. In questo caso, la situazione era ancora più grave.
Perché?
Perché gli affari principali per la siderurgia mondiale si faranno con la ricostruzione della Mesopotamia, della Siria, di intere zone del Libano e di tutto quello che è stato distrutto nelle guerre degli ultimi 20 anni. E lo stabilimento di Taranto è proteso sul mare, proprio con l’obiettivo di servire non solo l’industria metalmeccanica italiana, ma anche per affermare una visione oltremare. Ma in questo deve affrontare la concorrenza della siderurgia turca e di quella internazionale. E un grande gruppo appartenente a quest’ultima, come Arcelor Mittal, non poteva che avere interesse alla chiusura dell’impianto di Taranto e all’acquisizione del suo portafoglio clienti. Era evidente per chiunque capisca minimamente di industria.
Dunque, serve un socio privato che sia italiano?
Occorre un socio che abbia interesse a produrre in quell’impianto e penso che debba essere italiano. Potrebbe anche essere un consorzio siderurgico
Per convincere un privato a gestire l’impianto di Taranto, il Governo dovrebbe mettere sul piatto degli investimenti per la riconversione ambientale?
Parliamoci chiaro, è finita l’epoca dei bonus. È vero che ci sono i fondi prima previsti nel Pnrr e ora spostati sul Fondo per lo sviluppo e coesione per lo stabilimento di Taranto, ma occorre che ci sia un soggetto privato che si assuma l’impegno, come fecero i Riva, di investire per una siderurgia a bassa intensità carbonica. In Italia non mancano imprese che potrebbero risolvere una volta per tutte la questione ambientale, basta pensare ad Arvedi e Marcegaglia. Nel nostro Paese abbiamo anche importanti imprenditori come Antonio Gozzi, non per niente Presidente di Federacciai. Quel che conta, più che i fondi, è la volontà di produrre a Taranto.
Domani il Governo incontrerà i sindacati. A suo avviso, quale posizione dovrebbero avere quest’ultimi?<
Spero che i sindacati abbiano una posizione simile a quella che ho espresso. Credo che anche a loro interessi la continuità della produzione in condizioni che coniughino la buona siderurgia e la buona salute: questo si può fare, lo ripeto, con gli imprenditori italiani. Non tanto perché sono italiani, ma perché sono tra i migliori al mondo. Abbiamo una tradizione siderurgica di punta a livello mondiale e chiamare ArcelorMittal è stato uno schiaffo a questa tradizione, un esempio tipico del cosmopolitismo della borghesia vendidora che ha diretto dal Governo dell’Ulivo fino a poco tempo fa questo Paese e che ha acquisito potere grazie ai legami con l’estero. Adesso è ora di finirla.
Dunque, i sindacati dovrebbero accettare il perdurare della Cassa integrazione per molti lavoratori…
I sindacati non dovrebbero vivere in questo caso la Cassa integrazione come una sconfitta, ma come una vittoria. Altrimenti rischiano di commettere lo stesso errore che si fece alla Fiat nel 1980, quando si ottenne la cassa integrazione per 35.000 lavoratori, notizia che i sindacati guidati da anarco-sindacalisti giudicarono una sconfitta, mentre era una vittoria perché si evitò il licenziamento di quelle persone. Dunque, i sindacati dovrebbero aprire alla cassa integrazione, coniugata però con un piano di continuità e di aumento della produzione. Ci sono tutte le migliori condizioni tecnologiche e manageriali. Basta cercarle in Italia tra gli imprenditori siderurgici, non tra persone che hanno fatto o fanno altri lavori.
Resta, però, una sorta di spada di Damocle rappresentata dalle vicende giudiziarie che avvolgono lo stabilimento di Taranto. Su questo fronte andrebbe fatto qualcosa?
Sulla vicenda giudiziaria sottoscrivo quanto esposto da Giuliano Cazzola su queste pagine. Ora il Governo si faccia sentire: lo scudo penale per chiunque subentri nella gestione dell’impianto va rimesso ben più forte e ben più pesante di prima. Basta con la demagogia forcaiola.
(Lorenzo Torrisi)
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