C’è una parola che è ormai diventata un passaggio obbligato ogni volta che si parla di gestione e di strategia delle imprese. Questa parola è stakeholder, secondo il vocabolario: “Tutti i soggetti, individui od organizzazioni, attivamente coinvolti in un’iniziativa economica (progetto, azienda), il cui interesse è negativamente o positivamente influenzato dal risultato dell’esecuzione, o dall’andamento, dell’iniziativa e la cui azione o reazione a sua volta influenza le fasi o il completamento di un progetto o il destino di un’organizzazione”. Una parola che viene spesso contrapposta a shareholder che indica gli azionisti dell’azienda e quindi coloro che sono direttamente interessati ai buoni risultati e soprattutto al profitto, considerato come l’obiettivo più importante di ogni attività imprenditoriale.
Guardare agli interessi degli stakeholder vuol dire tener conto delle compatibilità ambientali, delle ricadute sul territorio della gestione aziendale, del rapporto costruttivo con i fornitori, del rispetto degli interessi dei clienti-consumatori. Il tutto non per una filantropica magnanimità, ma perché lo sviluppo così come il successo aziendali sono sempre più strettamente intrecciati con le realtà più o meno vicine.
In teoria niente di nuovo sotto il sole. Ma avrà pure un significato il fatto che esperienze come quelle di Adriano Olivetti negli anni ’50 del secolo scorso e di Brunello Cucinelli in questo terzo millennio vengono portate come esempi che si staccano da una realtà fatta invece da storie di ordinario profitto (quando c’è).
È così significativo che uno dei grandi interpreti di quello che potremmo chiamare l’umanesimo imprenditoriale, Gianfranco Dioguardi, abbia deciso di raccogliere in un libro (“L’impresa enciclopedia”, Ed. Guerini next, pagg. 216, € 21) la sua lunga e molteplice esperienza di imprenditore, di docente universitario, di promotore di iniziative scientifiche e culturali, attività per le quali ha ricevuto importanti riconoscimenti in Italia e all’estero.
Il titolo del libro ricorda la grande opera di Diderot e D’Alembert che ha segnato il Settecento e l’Illuminismo. Come sottolinea Federico Butera nell’introduzione, l’impresa si connota in questa prospettiva “come un organismo, un soggetto vivente che importa ed esporta con il territorio e con il mondo esterno conoscenze, pratiche, soluzioni, artefatti di prodotti e servizi, valore economico e sociale, benessere. Quindi non solo adattamento, agilità, ma anche capacità di plasmare l’ambiente esterno. Organizzazione come strategia, appunto”.
Ecco allora la necessità che l’impresa si apra, si confronti con il territorio e in particolare con la città di riferimento perché il tessuto urbano e il suo sviluppo possono attuare una simbiosi in una logica non solo di vantaggi reciproci, ma soprattutto di efficaci stimoli per una crescita ordinata e sostenibile.
Questo libro è esso stesso un’enciclopedia per la vastità dei riferimenti e delle citazioni così come per l’appassionata difesa del sapere e della conoscenza. Una visione altrettanto importante quanto attuale: basti pensare alla duplice opportunità dell’attuazione del Pnrr e dei relativi finanziamenti europei insieme a quella rivoluzione digitale che è in grado di generare nuovi e sempre più efficaci modelli organizzativi.
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