In vista dell’anniversario della strage di Capaci, c’è chi propone di fare un’analisi senza fine dell’agenda di Falcone. Ma è la strada sbagliata
La vita personale di Giovanni Falcone, e quella lavorativa, stanno dando nuova linfa al suo ricordo. Uomo verticale e pratico, i suoi appunti nelle sue agende trasudano fattività ed acume anche nelle piccole cose. E fanno riemergere anche spunti investigativi, suggestioni, che oggi, a tratti, appaiono inquietanti.
Furono anni difficili a Palermo quelli che vanno dall’omicidio di Piersanti Mattarella, nel 1980, alle stragi di Capaci e via D’Amelio nel 1992. In Sicilia accadde di tutto e tanti poteri si manifestarono con violenza e pervicacia, muovendosi nell’ombra. Mafia, Stato deviato, potenze straniere, strutture massoniche infiltrate, si muovevano quasi come una sola forza che trovava linfa in eventi omicidiari difficilmente leggibili se non in un contesto di condivisione di obiettivi.
Di qui la suggestione di Falcone, ripresa in modo ermeneutico dai suoi appunti, che i rapporti tra eversione nera e mafia fossero ben radicati. Una suggestione che restò tale, non per colpa sua, ma per i fatti della vita che forse lo costrinsero ad occuparsi di altro, senza mai diventare vera inchiesta.
Eppure ancora oggi c’è chi vede in quella suggestione una vera necessità di inchiesta giudiziaria che riporti in auge il teorema della fusione di poteri eversivi dietro il suo omicidio. Ad oggi la tesi non ha patria in tribunale ed ha i suoi detrattori autorevoli.
Molti inquirenti hanno sempre ritenuto la mafia di allora un autosufficiente consesso criminale che poteva da sola produrre un’immane strage di servitori dello Stato senza avere autorizzazioni o input, ma al massimo offrendosi come agenzia criminale o usando altri per i propri scopi.
Il tema è sempre lo stesso. O il potere in Italia in quegli anni era condizionato, se non gestito, da un consesso di criminali che avevano nelle loro mani anche pezzi importanti dello Stato, o la mafia fu un fenomeno eversivo estremo con cui lo Stato ha al massimo dialogato, da potenza autonoma, senza esserne parte.
La distinzione è essenziale perché impone, a seconda della tesi che si sceglie, di leggere alcune ambiguità o insuccessi, come altrettanti trionfi o risultati, o nell’ottica di un copione scritto per soddisfare agende esterne, o come una guerra della mafia allo Stato.
Quale che fosse il pensiero di Falcone, lui restò uno concreto, uno che inseguiva non i teoremi ma i “piccioli” per ricostruire reti, interessi e far infliggere condanne. Sapeva che conta più tenerseli in carcere con forza piuttosto che tentare di avere la prova di un grande complotto per poterli fermare. Un pragmatismo che gli costò la vita e che oggi dovrebbe imporre a tutti noi di inseguire i fatti in tribunale e usare le suggestioni solo per far colore.
Se Falcone fosse stato diverso, lui e Borsellino non avrebbero smantellato la mafia di Riina e Provenzano al maxi-processo, starebbero ancora cercando i mandati dei mandanti. Preferirono, prima di altro, dividere le indagini e mandare in galera i mafiosi per poi capire come arrivare – se e come – agli altri livelli che sicuramente con la Mafia ebbero a che fare.
Oggi riprendere quelle suggestioni e farne materia di tribunale potrebbe essere un atto quasi inutile sul piano concreto. La storia di quei giorni va scritta anche senza le sentenze. Solo così le suggestioni degli appunti di Falcone hanno la dignità di prova e di testimonianza vera. Farne materia da aule giudiziarie rischia di sminuirne il valore cercandone, inutilmente purtroppo, oggi, le prove.
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