Sono appena state pubblicate, come ogni anno, le preziose statistiche dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) relativamente alle “dimissioni volontarie” delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno figli da 0 a 3 anni: in sostanza si tratta di quei genitori – madri o padri – che decidono di restare a casa “a tempo pieno”, abbandonando definitivamente il proprio lavoro.
E così emerge che nel 2024 sono stati quasi 61mila le lavoratrici e i lavoratori che hanno preso questa importante decisione (nel 2023 erano stati oltre 62mila). Il dato pone molti interrogativi, e vale la pena di elencarne solo alcuni, senza pretesa di esaurire il tema.
In primo luogo emerge la rilevanza complessiva del fenomeno: se pensiamo ai poco più di 370mila bambini nati, sia nel 2023 che nel 2024, queste dimissioni interessano circa un sesto del totale delle nascite. Il che significa che per una famiglia su 6 l’ipotesi di continuare a conciliare carichi di cura genitoriali e attività lavorativa non sembra possibile.
Naturalmente molti di questi genitori possono dimettersi “temporaneamente” (forse sono la maggioranza), magari solo per i primi 2-3 anni di vita del figlio, per poi tentare di rientrare nel mercato del lavoro. Inoltre circa un quarto di queste dimissioni rimanda ad un “cambio di azienda” (perché più vicina a casa, o con un orario ridotto, o che offre maggiore flessibilità).
Però, pur con tali cautele, il dato sicuramente pone molte domande rispetto all’efficacia dei sostegni pubblici e del welfare aziendale rispetto ai progetti di vita e di lavoro dei neo-genitori. Da segnalare anche che oltre la metà delle dimissioni avviene con il primo figlio, quindi non per un “sovraccarico” legato al numero dei figli, ma per il “solo” passaggio all’assunzione delle responsabilità di cura genitoriale.
Un secondo dato rimanda alla costante crescita di questa scelta nel corso degli anni: dal sito dell’INL sono disponibili i dati fino al 2011, anno in cui queste “convalide” sono state 17.681, e sono cresciute stabilmente nel tempo, con incrementi annuali costantemente a doppia cifra (dall’11% fino al 15% di anno in anno) fino al 2019, anno in cui si è superata la soglia psicologica dei 50mila (51.558).
Ovviamente nel 2020 (anno della pandemia) si è scesi a 42.377, ma poi si è risaliti subito a 51.436 nel 2021 (+23%!), e poi stabilmente a oltre 60mila ogni anno, dal 2022 in poi.
Insomma, un numero crescente di genitori, di fronte alla sfida dell’arrivo di un figlio (più spesso del primo, oppure di “un figlio in più”), mette in discussione il proprio lavoro, e in genere sceglie di “restare a casa”, per dedicarsi alla cura del figlio. Il nodo rimane sempre lo stesso: libera scelta in cui “vedere i primi passi del tuo bambino non ha prezzo”, oppure sostanziale impossibilità di tenere insieme il doppio/triplo ruolo?
I dati dell’INL – terzo nodo – offrono alcune interessanti informazioni anche sulle “motivazioni” delle dimissioni. Nel 2024, per esempio, “il 39,3% è connesso alla difficoltà di conciliazione con i figli per ragioni legate alla disponibilità di servizi, il 26,5% è relativo al passaggio ad altra azienda, il 25,9% alle difficoltà connesse al lavoro (di conciliazione legata all’organizzazione del lavoro o a scelte del datore di lavoro), l’1,6% a difficoltà logistiche (cambio di residenza/distanza dal luogo di lavoro), lo 0,1% al trasferimento dell’azienda e il 6,6% ad altre motivazioni”.
Interessante è anche vedere che di anno in anno il peso specifico delle varie motivazioni varia, a conferma che per sostenere la genitorialità non ci sono singoli interventi che sono sempre risolutivi, ma serve piuttosto una serie eterogenea e flessibile di azioni e di supporti, disponibili sul territorio, sia dalle aziende che dai servizi pubblici e privati, che consenta a ciascuna coppia di mettere insieme un proprio mix originale e su misura.
Un ultimo tema – che sarebbe a dire il vero il primo e più importante, in questo caso – riguarda le differenze di genere, vale a dire quanto la cura dei figli rimanga o meno una questione solo di donne.
I dati in questo sono abbastanza incoraggianti: se nel 2012 i neo-padri dimessi erano solo 506 (pari al 2,9% del totale delle dimissioni), nel 2024 il numero di padri è arrivato a 18.519, superando la quota percentuale del 30%. Un dato certamente molto rilevante: ancora lontano da una piena parità di corresponsabilità, ma certamente una conferma che i “nuovi padri” oggi sempre più frequentemente vogliono essere coinvolti nella genitorialità.
Certo per molti di loro, come ricorda la relazione INL, “come emerso anche nelle precedenti relazioni […] per i lavoratori padri la motivazione principale di recesso è di carattere professionale, ovvero per passaggio ad altra azienda (72,2% nel 2023 e 66,6% nel 2024) mentre la cura dei figli è la motivazione solo nel 16,7% dei casi nel 2023 e del 21,1% nel 2024”.
Sarebbe comunque interessante verificare se questi “passaggi ad altra azienda” sono prioritariamente motivati dalla necessità di migliorare i livelli retributivi, a fronte di una famiglia che si ingrandisce e del reddito femminile che si riduce o sparisce del tutto (e quindi rimani l’unico breadwinner), oppure se si tratta di posti di lavoro più flessibili, più vicini a casa, con meno ore di impegno.
Rispetto alle madri, in effetti (sempre con le parole della relazione INL) ”la motivazione prevalente è la difficoltà di conciliazione tra lavoro e cura del bambino/a: in particolare la maggioranza delle lavoratrici madri ha collegato tale difficoltà all’assenza di servizi (il 45,2% nel 2023, il 47,5% nel 2024). La seconda tipologia di problematiche è quella legata all’organizzazione del lavoro (29,5% nel 2023 e 30,0% nel 2024). Nel complesso la difficoltà di cura rappresenta nel 2023 il 74,7% delle convalide, valore che è passato al 77,5% nel 2024”.
Tanti altri nodi meriterebbero ulteriori commenti su questi dati (ad esempio la distinzione secondo la cittadinanza dei padri e delle madri), ma si rimanda per questo alla lettura diretta dei dati INL. In ogni caso queste informazioni confermano che l’evento-nascita è per entrambi i genitori un passaggio critico – oltre che una splendida scommessa sul futuro! -, e la società tutta dovrebbe interrogarsi su come sostenere sempre più efficacemente i giovani madri e le giovani madri davanti a questa sfida, da cui dipende non solo il futuro progettuale delle vite dei genitori, ma quello dell’intera società.
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