Dei dati diffusi dall’Istat sulle condizioni di vita e il reddito delle famiglie negli anni 2023-2024, quel che maggiormente colpisce Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, è notare «uno scivolamento generale del tenore di vita, insieme a un tendenziale aumento delle disuguaglianze. Quest’ultimo appare piuttosto evidente confrontando il reddito netto medio delle famiglie nel 2023, di poco superiore ai 37.500 euro annui, con quello mediano, pari a poco più di 30.000 euro annui: vuol dire che metà delle famiglie in Italia era ben sotto la media».
Pensa che il tenore di vita degli italiani sia migliorato visto che l’inflazione, ancora piuttosto elevata nel 2023, è nel frattempo diminuita?
Penso che ci sia stato un miglioramento della situazione, ma se guardiamo a quello che sta accadendo oggi a livello internazionale è davvero difficile capire cosa potrà accadere già da quest’anno. Come ho spiegato in una precedente intervista, c’è, infatti, un’elevata incertezza e il rischio che i benefici degli scambi internazionali vengano notevolmente ridimensionati. Il che non aiuterebbe l’attività economica europea e italiana, con le conseguenze che possiamo immaginare per il lavoro e i redditi collegati.
Il problema del costo della vita è sentito anche in altri Paesi europei. Pensa che sarebbe il caso di trovare una soluzione comune?
In effetti, nei Paesi nordici l’inflazione morde e se il livello dei redditi reali non cresce il potere d’acquisto cala. Probabilmente oggi c’è anche una maggior consapevolezza sul fatto che alcuni problemi possono essere affrontati meglio con una visione comune europea e non di singolo Stato. Difficile, però, dire in questo momento in che modo possa essere affrontato a livello europeo il problema del caro vita.
Dai dati dell’Istat sembra emergere che le famiglie con più di due figli sono più esposte al rischio povertà. Servono più politiche per la famiglia?
A mio modo di vedere emerge, in primo luogo, la necessità di riflettere sul concetto di reddito. Non penso si possa pensare che serva esclusivamente a remunerare una prestazione lavorativa. Bisognerebbe rifarsi a quello che dicevano i grandi economisti classici, secondo cui il salario doveva consentire a un Paese di guardare al proprio futuro. Occorreva, dunque, tener conto anche delle famiglie dei lavoratori, così da consentire l’emergere di nuovi soggetti, i figli, che potessero portare avanti la società e l’attività economica.
Vuol dire che spetterebbe ai datori di lavoro, compresi quelli pubblici, remunerare meglio i propri dipendenti?
Non penso che si debba arrivare a legiferare dall’alto sui livelli salariali in modo astratto. Bisognerebbe creare le condizioni perché si comprenda che il salario dovrebbe consentire non solo una vita dignitosa al lavoratore, ma anche a una società di riprodursi nel tempo, altrimenti essa è destinata a scomparire. Bisognerebbe far sì che vita economica e vita familiare siano entrambe avvantaggiate e non viste quasi in contrapposizione.
Dopo l’Assegno unico per i figli e il taglio del cuneo fiscale per i redditi medio-bassi, quali altre misure si possono mettere in campo per migliorare la situazione delle famiglie?
Quelli che ha citato sono interventi adeguati, ma non abbastanza. Mi spiego: se nonostante l’utilità dell’Assegno unico vediamo che il rischio povertà cresce con l’aumentare del numero di figli, questo vuol dire che l’importo che è stato finora erogato non è sufficiente ad aiutare le famiglie a sostenere tutte le spese necessarie per i figli. Detto questo, penso che in questo contesto ci sia una cosa importante che si può fare guardando al medio lungo termine.
Quale?
I dati ci dicono che i Paesi con il Pil pro capite più elevato sono quelli con livelli di istruzione terziaria più alti. Quindi, bisognerebbe aumentare le risorse e la qualità della spesa relativa all’istruzione, in modo da fornire capacità, competenze e skills che diano prospettive migliori al futuro lavorativo delle giovani generazioni. Augurandoci che nel frattempo aumentino le retribuzioni e le condizioni lavorative nel nostro Paese per evitare che poi emigrino.
(Lorenzo Torrisi)
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