La scena è quasi da teoria della cospirazione: un ragazzo di quattordici anni dell’aretino è su YouTube e commenta un video di una sparatoria in una scuola americana. L’episodio macabro viene esaltato e, nel commento, il ragazzino manifesta volontà di emulazione. Trascorrono poche ore e l’Fbi allerta la polizia postale italiana che intercetta il giovane e apre su di lui un fascicolo di indagine, il tutto accompagnato dallo sgomento della famiglia e dall’incredulità del protagonista della vicenda che fa ancora fatica a capire che cosa possa aver fatto di così grave.
La storia si presta ad una molteplicità di letture, che portano tutte a due considerazioni: la tempestività dell’intervento delle autorità internazionali dimostra che è possibile proteggere i ragazzi in rete, che esistono strumenti e modalità di gestione della presenza dei giovanissimi sui social e che, quindi, esiste una qualche forma di responsabilità pubblica nelle mille tragedie che quotidianamente raccontiamo, una responsabilità che deve essere assunta con interventi legislativi ad hoc, evitando di continuare a supportare un mondo virtuale raccontato come ineluttabile, ma che – invece – si presenta come un Far West che può essere normato.
E poi c’è la seconda considerazione, tutta di stampo educativo: quello che sta accadendo tra i nostri ragazzi è la distorsione delle coordinate fondamentali dell’esperienza, lo spazio e il tempo. Non solo la rete è senza tempo, per cui un qualunque filmato di mesi fa può essere ripostato ed essere considerato come “nuovo”, ma la rete fa venire meno il senso dello spazio. L’educazione digitale, che non è l’ennesima materia da scaricare sulla scuola, ma uno dei fattori con cui possiamo introdurre i nostri ragazzi alla realtà, impone di dire ai più giovani che in rete non esistono spazi privati, spazi in cui si possa dire quello che si vuole, spazi in cui si possa perdere il controllo delle proprie affermazioni e delle conseguenze delle proprie prese di posizione. Nel mondo dei social tutto è pubblico: Whatsapp è pubblica, Instagram è pubblica, YouTube è pubblico.
E qui risiede il grande paradosso di una generazione iperprotetta, costretta a stare rinchiusa da circa un anno in spazi ben delimitati del vivere civile, che si trova dinnanzi a sé il più ampio spazio pubblico che si ricordi nella storia dell’occidente. Esiste un tema di gestione e di consapevolezza circa quello spazio, esiste un tema di percezione della realtà cui l’adulto non si può sottrarre.
La domanda vera, guardando le chat improbabili dei boomers, è se gli adulti stessi hanno contezza di tutto ciò, se sono essi stessi pronti a intraprendere una battaglia educativa tesa non a proteggere i propri figli, ma a consegnare loro quella libertà che li responsabilizza dinnanzi ad ogni aspetto del reale. Il punto è che i ragazzi non imparano con una lezione, ma con una vita che incarna, che è segno, di ogni legittimo insegnamento. E su questo, sulla maturità dell’adulto, la strada sembra tutt’altro che agevole. A volte viene da pensare che è più facile che intervenga l’Fbi.
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