Mentre il termine Def (Documento di economia e finanza) è entrato da tempo nell’uso comune anche di coloro che non seguono regolarmente i temi e i problemi economici, Nadef (Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza) è un acronimo nella galassia delle sigle ancora poco conosciuto dal grande pubblico. Eppure la Nadef ha un’importanza maggiore del Def al fine della politica economica. Il primaverile Def illustra la situazione dell’anno in corso e delinea le politiche per quelli successivi, l’autunnale Nadef rappresenta, per molti aspetti, la base per la Legge di bilancio.
Negli ultimi giorni della settimana scorsa sono iniziati i preparativi per la Nadef e, a tal fine, si è anche svolto un incontro a palazzo Chigi con le parti sociali. Sempre la settimana scorsa, l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) ha pubblicato un interessante lavoro comparativo sulle strategie di bilancio e i programmi di stabilità e di convergenza degli Stati dell’Unione europea, il Fondo monetario internazionale ha aggiornato le proprie previsioni econometriche e il Centro Europa ricerche (Cer) ha presentato il proprio primo rapporto sull’economia italiana. C’è, quindi, molto materiale su cui riflettere.
Non è chiaro se il Governo (e i collaboratori dei Ministri più direttamente interessati) abbiano assorbito queste analisi e ne abbiano tirato le somme. Da quel che si è letto, la prima riunione sulla Nadef è stata poco o più di una presa di contatto in cui si sono contrapposte ipotesi contrastanti e che non sembrano essere in linea con la lettera all’Ue firmata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, lettera in cui l’Italia si è impegnata a rispettare scrupolosamente tutti i vincoli dei trattati e degli accordi intergovernativi europei in tema di bilancio e di stock di debito. In effetti, a quel che si è appreso, le due forze che fanno parte del Governo propongono ambedue politiche di bilancio espansive, ma con metodi profondamente differenti: una propone una forte riduzione della pressione tributaria, l’altra un aumento della spesa pubblica (prevalentemente a fini sociali). Nessuna delle due parti sembra tenere conto degli impegni sottoscritti dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia e delle Finanze e stipulati per evitare una “procedura d’infrazione” per debito eccessivo.
Andiamo con ordine, prendendo l’avvio dal quadro macroeconomico. Sia il Fmi che il Cer vedono nubi sull’economia mondiale, ma prevedono un rimbalzo della crescita italiana dal penoso (difficile trovare altro aggettivo) 0,1% nell’anno in corso, allo 0,8% nel 2020 per poi scendere allo 0,5% nel 2021. Occorre precisare che queste stime sono state elaborate prima che venerdì 26 luglio giungessero i dati sull’economia tedesca, dati che segnano un forte rallentamento, e un vero e proprio tracollo del settore manifatturiero, elementi destinati a incidere non poco sull’Italia. Anche se l’anno prossimo la crescita italiana raggiungesse lo 0,8%, ci sarebbe poco da essere orgogliosi in un’eurozona che crescerebbe dello 1,3%.
Inoltre, secondo il Fmi, l’Italia non rispetterebbe gli impegni assunti con l’Ue né in materia di deficit, né in materia di debito. Quasi li manterrebbe, secondo le stime del Cer, perché – non lo si scrive a tutto tondo, ma lo si comprende studiando con cura le tabelle – il gettito da imposte indirette passerebbe da 253,6 miliardi di euro nel 2018 a 257,7 nel 2019 (frutto della fatturazione elettronica) a 284,3 nel 2020 e a 296,7 nel 2021. Un vero e proprio balzo in avanti che implica l’aumento dell’Iva per sterilizzare le clausole di salvaguardia. Un aumento, sinora, negato con veemenza dai due vicepresidenti del Consiglio.
Questo è uno dei nodi di finanza pubblica che dovrà essere sciolto dalla Nadef. Nodo essenziale anche per stabilire se l’Italia continua a essere in una situazione di deviazione significativa (per utilizzare il linguaggio dell’Upb) dal percorso per mettersi in linea con gli obiettivi a medio termine di finanza pubblica concordati a livello europeo. Quindi, si è ancora lontani dal poter dire se l’Italia continuerà a essere deviante o comincerà a essere convergente rispetto alla traiettoria stabilita nell’eurozona. Non è un problema da poco. Abbiamo toccato con mano che la convergenza (anche solo un cenno di convergenza come la lettera di Conte e di Tria) dà frutti immediati in termini di riduzione dello spread, mentre la devianza costa cara.
Ciò non vuole dire che nell’attuale situazione di stagnazione più che decennale (e con il rischio di un rallentamento dell’economia internazionale in prospettiva) non si debba pensare a politiche di bilancio espansioniste. La Nadef, anzi, sarebbe la sede opportuna per delinearle e anche per predisporre la strada per chiedere deroghe alle autorità europee. Come già scritto su questa testata, si dovrebbe ristrutturare la spesa pubblica riducendo quella di parte corrente per dare spazio a investimenti ben concepiti e ben preparati per i quali si potrebbe chiedere flessibilità dai vincoli europei. Ma pare che le liti tra le due parti del “contratto di governo” e il solleone tengano palazzo Chigi e via Venti settembre lontani da questi ragionamenti.