Moody's ha tolto la tripla A al rating degli Stati Uniti. La situazione dell'Ue, tuttavia, non è meno allarmante
Moody’s non è la prima, bensì l’ultima agenzia di rating a togliere le tre A al debito americano. Due anni fa era stata stata Fitch, mentre Standard & Poor’s le aveva già mollate nel lontano 2011, mentre la crisi finanziaria non era ancora finita. Tuttavia è la prima volta dal 1919 che tutte le principali agenzie hanno abbassato la loro valutazione. E a differenza dal passato oggi la decisione assume un valore ben maggiore, suona come una sanzione alla politica economica di Donald Trump. Troppo debito, troppe spese, non si vede all’orizzonte nessuna concreta possibilità che la tendenza venga invertita.
Il Presidente come al solito getta la colpa sul suo predecessore ed è vero che Joe Biden ha aggravato sia il disavanzo federale, sia l’indebitamento con le sue politiche di sostegno alle energie alternative e alle tecnologie informatiche, nel tentativo di accogliere la sfida cinese. Ma una spinta notevole l’aveva data lo stesso Trump nel suo primo mandato, con tagli fiscali non coperti.
Le polemiche non finiranno, e avere Aa1 invece di Aaa non è una catastrofe, eppure gli Stati Uniti per la prima volta da un secolo non sono più considerati il rifugio sicuro. Quel “punto di rottura” annunciato da un allarmato Mario Draghi a Coimbra non riguarda solo i dazi, ma la posizione degli Usa nell’economia e nella politica mondiale. Il Paese più ricco e potente diventa meno affidabile di prima, il Nuovo Mondo che aveva salvato il Vecchio Mondo ridotto in rovine, rischia di non essere più un’isola di stabilità protetta da due oceani.
Vedremo domani la reazione dei mercati finanziari. Lo spread con la Germania (uno dei pochi Paesi ancora con le tre A) che è già alto (189 punti base) continuerà a salire. Per rendere appetibili i titoli federali dovrà salire il loro rendimento già superiore al 4% per quelli a dieci anni che sono il riferimento del costo del denaro a medio-lungo termine. Si era detto che non solo la Cina, ma le grandi banche europee e mondiali avevano cominciato a liberarsi di obbligazioni in dollari, adombrando una guerra finanziaria accanto a quella commerciale. Dopo la bocciatura di Moody’s non c’è bisogno di immaginare complotti.
Quando le obbligazioni non attirano, in genere i titoli azionari se ne avvantaggiano. Non sono esattamente vasi comunicanti, ma c’è un rapporto inverso. Tuttavia, se aumenta l’incertezza e si diffonde il rischio di uno scossone finanziario, le borse non possono non tenerne conto. È uno scenario che preoccupa. L’indebolirsi degli Stati Uniti sotto i colpi di un’Amministrazione ondivaga, confusa, velleitaria, non è una buona notizia per nessuno, in realtà nemmeno per la Cina che tra l’altro (se calcoliamo anche Hong Kong) detiene circa mille miliardi di dollari in titoli di debito Usa.
L’impatto interno agli Stati Uniti è anch’esso negativo. Se continua così America First diventa America Last, invece del primato ci sarà una faticosa rincorsa. Il Tesoro dovrà ridurre le spese in modo considerevole, progetti tipo Doge si sono rivelati molto fumo e poco arrosto. Non ci sarà spazio per il taglio delle tasse promesso da Trump. E l’idea di finanziarlo con i dazi ha già dimostrato la sua infondatezza. Ora il Presidente se la prende con la Federal Reserve, verso il suo Presidente Jerome Powell siamo ormai agli insulti personali. Ma la banca centrale (non solo Powell, tutto il consiglio) teme di agire in modo incauto, aggiungendo così instabilità a instabilità.
È vero che i tassi d’interesse restano elevati, ma l’inflazione non scende con la necessaria velocità. Non solo: Powell ha fatto capire chiaramente che la politica monetaria non può sostituirsi alla politica fiscale e con questi chiari luna non vuol essere lui il responsabile di un tracollo finanziario. La Fed si muoverà, è opinione generale, ma non prima di giugno e comunque con passo felpato. “Trump ha dichiarato guerra ad Adam Smith e ha perso”, ha scritto il Wall Street Journal. La realtà è che ha dichiarato guerra anche al buon senso.
La campana di Moody’s suona anche al di qua dell’Atlantico. I Paesi che hanno il rating tre A da parte di tutte le agenzie sono solo dieci: Australia, Canada, Danimarca, Germania, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Singapore, Svezia e Svizzera. Curioso che i primi tre siano proprio quelli contro i quali Trump ha scagliato i suoi strali. Come si vede, nella zona euro ci sono solo la Germania, l’Olanda e il Lussemburgo. Ciò sancisce la frattura tra Paesi formiche e Paesi cicale e mostra che nell’Eurolandia solo Berlino può fare da locomotiva se la spesa pubblica deve essere il motore della crescita. Ma nemmeno l’economia tedesca è in grado di compensare la domanda americana.
L’Europa si sta rendendo conto della sua debolezza, ha detto ancora Draghi, quindi l’Ue deve reagire come soggetto unico “non come una somma di Paesi”, ha sottolineato. Il banco di prova è già pronto: Trump ha annunciato l’invio di lettere a 150 Paesi ai quali vuole imporre nuovi dazi. “Non possiamo incontrarli tutti”, ha aggiunto. Vedremo se per quel che riguarda l’Ue avrà un solo interlocutore o 27 gnomi in ordine sparso.
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