Probabilmente sono i tanti anni che fa passare da un disco all’altro (otto, dall’ultimo splendido The Idler Wheel…, il quale a sua volta era uscito a sette anni da Extraordinary Machine) che le permettono di conservare tanta freschezza e creatività. Certo, se pensiamo che negli anni 60 e 70 gli artisti erano obbligati da contratto a sfornare due dischi all’anno, Fiona Apple è l’opposto dell’idea di commerciabilità. Eppure il suo pubblico, tre milioni di copie vendute dell’esordio, nel 1996, anche se ridotto le rimane fedele. Non può essere altrimenti con quella che senza ombra di dubbio è l’artista più affascinante e straordinaria degli ultimi 25 anni. Sempre fedele a se stessa, anche se cambia in modo intelligente le strutture sonore dei suoi dischi, ma neanche tanto, Fiona si è portata nel terzo millennio l’ansia, l’angoscia, le paure della generazione anni 90, quella che si è persa per strada o, peggio, si è suicidata.
Oggi con questi incubi mentali ha imparato a venirne a patti, ma rimangono sottovena le tracce di una sofferenza mai del tutto cicatrizzata: Fiona è una delle artiste che più mette a nudo se stessa come se ne ricordano poche nella storia della musica. Forse Joni Mitchell, donne che scavano a fondo nella propria psiche costrette a confrontarsi quotidianamente con un mondo maschilista e violento, lasciando trapelare rabbia e dolcezza. Lei, che a 12 anni fu vittima di uno stupro.
Il nuovo disco è forse il suo più sperimentale, a tratti ricorda certe cose di Yoko Ono (ma senza stonare…). Composto e registrato quasi interamente nella sua casa di Venice Beach in California in modo informale e spontaneo, si basa sulla sua voce sempre più bella e su percussioni e rumori di ogni tipo: pentole scagliate sul muro, le ossa del suo cane morto a cui anni fa dedicò una canzone, campanelli e tutto il diavolo possibile. Su questo rumorismo si cala però meravigliosamente la sua voce dai toni caldi, jazzati oppure schizoidi, arrivando a sdoppiarsi in un dialogo immaginario fra due donne.
Dal punto di vista melodico, il pezzo che apre l’album I Want To Love You, dominato dal suo magnifico pianoforte e da una voce piena di commozione, emozione, uguale a se stessa e sempre diversa, è quello che piacerà di più a chi ha amato Tidal e il suo ultimo disco.
Fiona Apple canta sussurrandoti nell’orecchio, perché lei canta non per le masse ma per l’individuo, da cuore a cuore. Il desiderio sessuale e carnale che ha sempre fatto capolino emerge anche qui: “Blast the music! Bang it! Bite it! Bruise it!”.
Anche Shameika vola alta su questi livelli, pianoforte e batteria jazz, voce recitante, cambi repentini di tempo, effetti rumoristici, effetto capogiro che solo lei sa creare. conducendo musica e voce in modo rutilante.
“Don’t you, don’t you, don’t you, don’t you shush me!” urla in Under the Table. Nessuno metterà mai a tacere Fiona Apple, mentre nella title track ogni genere di percussione non interrompe una sorta di dialogo con se stessa, due voci che si sovrappongono una sull’altra. In For Her torna il costante incubo del suo passato: “Good mornin’, you raped me in the same bed your daughter was born in” (Buongiorno, mi hai stuprata nello stesso letto dov’è nata tua figlia). E’ infatti questo un disco dedicato alle donne, quelle come lei, che hanno subito e subiscono il male degli uomini, ma anche a un confronto fra donne. Nelle canzoni di Fiona Apple c’è più che uno slogan buono per una stagione, c’è una vita in carne e sangue. Per questo ogni suo disco suona così veritiero, così puro e così aperto, come una ferita.
Un viaggio affascinante tra le mura di casa, profetico in questi tempi di quarantena da coronavirus, che come sempre con l’artista americana porta a confrontarsi con i nostri lati più oscuri, trovando consolazione nelle sue straordinarie costruzioni musicali, e in quella voce che ha pochi paragoni.
Ovviamente non si può chiudere una recensione di un disco di Fiona Apple senza spendere due parole sul titolo, per una artista che in passato aveva detenuto il record di titolo più lungo della storia, battuta poi dai Chumbawamba (444 caratteri e 90 parole quello, abbreviato, di When The Pawn…). Fetch the Bolt Cutters è una battuta pronunciata dalla detective Stella Gibson nella serie tv The Fall. Il personaggio interpretato da Gillian Anderson si trova di fronte a una porta chiusa dietro alla quale una ragazza è stata torturata. «Prendete le tronchesi», ordina per entrare nella stanza. «Prendete le tronchesi, sono stata qui fin troppo» dice Fiona. Che è il suo motto di una vita intera: tagliare ogni legame perché la libertà viene prima di ogni cosa.