Francesco Cossiga non era un uomo che amava le mezze misure e sarà proprio questo uno dei temi su cui si concentrerà l’ottava puntata di Linea di Confine, in onda questa sera, mercoledì 9 aprile, alle 23.25 su Rai 2.
Se in gioventù Cossiga aveva infranto ogni record di precocità, negli ultimi due anni del suo mandato al Quirinale scelse una strada ancora più radicale: demolire, parola dopo parola, il sistema politico che lo aveva eletto. Fu allora che nacque la leggenda del “Picconatore”, un soprannome che lui stesso abbracciò con orgoglio.
Tutto cambiò nel 1990: fino ad allora, infatti, il Picconatore era stato il “Presidente notaio”, un custode silenzioso delle istituzioni, ritratto dai vignettisti come un fantasma che vagava per i corridoi deserti del Quirinale, ma, in seguito alla caduta del Muro di Berlino, qualcosa si ruppe in lui: l’Italia, ancora ingabbiata nella logica della Guerra Fredda, gli parve improvvisamente come un Paese in ritardo, inaridito, incapace di voltare pagina.
E così, con la stessa determinazione con cui da giovane aveva sfidato i boss della DC sarda, imbracciò il piccone metaforico e iniziò a colpire.
Le sue “esternazioni” – termine che odiava – erano calcolate come colpi di martello: “Il Parlamento è un’assemblea di incapaci”, “I partiti sono cadaveri che camminano”, “La magistratura è politicizzata”, solo alcune delle inequivocabili dichiarazioni che mandarono in tilt il Palazzo, scatenando reazioni isteriche e impreviste.
Craxi lo accusò di “qualunquismo”, i socialisti proposero una commissione per giudicarlo, i giornali lo dipinsero come un folle, ma il Picconatore era perfettamente consapevole di cosa stesse facendo: “Piccono per far crollare il vecchio, perché il nuovo possa nascere”.
Dietro le quinte di Francesco Cossiga, il Picconatore: quando le parole diventano martellate politiche
“Picconatore non è un insulto, è un mestiere“, amava ripetere Francesco Cossiga, con quel misto di ironia e serietà che lo caratterizzava e, autoassegnandosi questo soprannome, l’ex Presidente spiegava che il suo ruolo non era tanto “fare il muratore” – cioè costruire consensi – ma “picconare” le ipocrisie del sistema.
Una metafora edilizia che nascondeva, in realtà, una precisa strategia politica: le sue celebri “picconate” erano dichiarazioni metodiche e appositamente studiate per scardinare equilibri di potere e costringere la classe dirigente a fare i conti con verità scomode e ostili da accettare.
Cossiga trasformò il Quirinale in una fucina di provocazioni calcolate; quando definì la magistratura “una casta” nel 1991 o liquidò Craxi come “un uomo finito” mentre era ancora al potere, non erano semplici sfoghi, ma colpi di piccone ben assestati, che facevano tremare le fondamenta del Palazzo. “Io non dico sempre la verità, ma mento il meno possibile”, confessò una volta, rivelando il metodo scrupoloso dietro l’apparente spontaneità.
Il Picconatore aveva un’arma segreta: il perfetto controllo del paradosso, tanto che si autodefiniva “anarchico di destra” e “conservatore rivoluzionario”, sfuggendo a qualsiasi tipo di etichetta.
Le sue picconate più celebri – dallo svelamento dei retroscena dei servizi segreti alle profezie su Tangentopoli – nascevano da un’analisi lucida dei mali del sistema ed oggi che la politica preferisce il linguaggio burocrate e asettico, quell’irriverenza calcolata non la riscontriamo più. Cossiga sapeva perfettamente che, a volte, per rinnovare le istituzioni servono proprio dei colpi di piccone strategicamente piazzati.