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Home » Esteri » Medio Oriente » GAZA/ “CIA e Shin Bet controllano gli aiuti, intanto Trump aspetta l’ok di Putin per deportare i palestinesi”

  • Medio Oriente
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GAZA/ “CIA e Shin Bet controllano gli aiuti, intanto Trump aspetta l’ok di Putin per deportare i palestinesi”

Netanyahu alle prese con gli Haredi e i controversi aiuti a Gaza. Trump vuole i gazawi in Cirenaica, ma prima deve risolvere la guerra in Ucraina

Int. Filippo Landi
Pubblicato 5 Giugno 2025
Morti e feriti dopo l'ennesimo strike di Israele nel Nord della Striscia di Gaza (Ansa)

Morti e feriti dopo l'ennesimo strike di Israele nel Nord della Striscia di Gaza (Ansa)

Netanyahu ha qualche problema interno, con gli Haredi, gli ebrei ultraortodossi, che spingono i loro rappresentanti a uscire dal governo, ma si salverà. E le pressioni internazionali non sono ancora tali da poterlo mettere in difficoltà. Anche la Gaza Humanitarian Foundation, creata in teoria per portare aiuti umanitari alla gente della Striscia, in realtà è uno strumento dei servizi segreti di USA e Israele, il cui vero obiettivo non è certo quello di venire in soccorso alle persone.


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In questo contesto, spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, l’unico scenario che si apre è quello dell’annichilimento dei palestinesi. Per portarne un milione in Libia, in Cirenaica, gli USA però hanno bisogno di chiudere la guerra in Ucraina, strappando così ai russi il placet per un’operazione impossibile senza l’apporto di Haftar, amico del Cremlino che controlla la regione dove dovrebbero essere portati gli abitanti della Striscia.


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I leader Haredi hanno chiesto allo United Torah Judaism di lasciare il governo perché gli studenti delle yeshiva, le scuole ebraiche tradizionali, non sono stati esentati dalla leva militare. Netanyahu rischia qualcosa?

La situazione attuale è segnata da un attacco terrestre a Gaza e da un’accentuazione dell’attività militare in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove sono stati abbattuti numerosi edifici nei quartieri arabi. Nel frattempo, i partiti religiosi, che sono altra cosa rispetto alle formazioni fondamentaliste di Ben-Gvir e Smotrich, hanno posto sul tappeto la questione del servizio militare dei giovani che frequentano le scuole religiose e la legge che li considera assimilabili agli altri per quanto riguarda il loro arruolamento nell’esercito. Una forma di pressione sul governo Netanyahu, che ha fatto dell’alleanza tra il suo partito di centrodestra, il Likud, e i partiti tradizionali e religiosi il fulcro della sua storia politica e della sua permanenza al potere.


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Questa alleanza è in bilico?

Netanyahu è sempre riuscito a risolvere certe situazioni con il suo pragmatismo, per esempio varando una legge che chiama in servizio i giovani ortodossi delle yeshiva posticipando nel tempo l’applicazione delle nuove norme. I partiti tradizionali e religiosi si sentono forti nel governo, ma c’è un problema più generale da tenere in considerazione. Il premier israeliano sa bene che una parte dei riservisti ha dilazionato il ritorno alle armi e che quindi c’è un problema di reclutamento. Non credo, comunque, che si arriverà a una crisi di governo: non gioverebbe neppure ai partiti tradizionali e religiosi.

Proprio nessuna crisi in vista?

Netanyahu ha rischiato di perdere la maggioranza in Parlamento quando Ben-Gvir si è dimesso dal governo, rimanendone fuori fino alla vigilia del blocco degli aiuti umanitari a Gaza, che era una sua richiesta. Quando è stata accolta, è rientrato nell’esecutivo. Nulla vieta di pensare, comunque, che i gruppi ortodossi americani stiano premendo su quelli israeliani per un cambiamento della politica complessiva del governo. Da New York è più evidente che il governo israeliano sia in una posizione di isolamento internazionale.

Dodici Paesi, tra cui l’Italia, hanno condannato le violenze dei coloni in Cisgiordania. Macron dice che riconoscerà la Palestina. Le pressioni internazionali su Israele cominciano a farsi sentire?

La comunità internazionale esprime diverse posizioni, che rendono meno forte la pressione sul governo israeliano, tanto che esso può permettersi, com’è successo nelle ultime ore, di bloccare completamente ogni tipo di distribuzione del cibo dentro Gaza, per ristrutturare la distribuzione stessa. Può anche arrivare ad ammettere di aver sparato sulla gente che andava verso i centri per gli aiuti gestiti dai mercenari americani, sostenendo che non rispettava i percorsi di accesso alle strutture. Dopo che sono morte alcune decine di persone, si è sospeso il funzionamento dei centri.

Ma cos’è veramente la Gaza Humanitarian Foundation, fondata per distribuire gli aiuti e intorno alla quale si sono scatenate le polemiche?

È evidentemente uno strumento in mano ai servizi segreti americani e israeliani, alla CIA e allo Shin Bet, che ha reclutato in maggioranza ex soldati. Ci sono alcuni elementi molto chiari che definiscono questa iniziativa: il primo è che si vuole procedere a un censimento della popolazione, motivo per cui chi viene, se riceve il pacco, viene fotografato. Ci sono casi di persone arrestate al momento della distribuzione perché sono state identificate con il riconoscimento facciale come sospetti simpatizzanti di Hamas. Il secondo elemento è la crescita della delazione, secondo il principio “io ti do il cibo e tu mi dai informazioni”. Il terzo elemento è lo spostamento della popolazione: i centri non sono realizzati dove si trova la gente, che dunque è costretta a recarsi in zone desertiche. Insomma, è uno strumento militare.

L’aiuto alla popolazione è l’ultimo degli obiettivi?

È uno strumento che serve anche a precostituire una difesa dei politici e dei militari americani e israeliani davanti ai tribunali della giustizia internazionale. L’ufficio legale dell’IDF ha messo in guardia i vertici dell’esercito: la totale chiusura degli aiuti umanitari, l’impossibilità di accedere all’acqua, alla luce, al cibo, ai medicinali, sono elementi che possono concorrere a formare l’accusa di genocidio. Lo strumento realizzato per gli aiuti in realtà non serve alla gente, ma ai politici e ai militari, non solo israeliani e americani, ma perfino europei, per giustificarsi davanti ad accuse future.

Le trattative per la tregua e la liberazione degli ostaggi conoscono l’ennesima fase di stallo: qual è lo scenario che potremmo trovarci davanti, viste queste premesse?

Bisogna partire dalle pressioni che la destra israeliana sta esercitando su Netanyahu: Ben-Gvir ha dichiarato che occorre usare questa “opportunità temporale” per schiacciare, annichilire e distruggere la realtà di Gaza. Si continuerà con il blocco, totale o quasi, degli aiuti umanitari. Se anche c’è un po’ di cibo, non ci sono più medicine, né luoghi per curarsi. Sono stati distrutti l’ultimo reparto di dialisi e quelli rimanenti di oncologia. La finalità è sempre di spingere le persone ad andarsene.

Qual è il futuro che attende i palestinesi?

Trump ha bisogno di chiudere il capitolo della guerra in Ucraina per ottenere il consenso russo alla deportazione in Libia di almeno un milione di palestinesi. Un’operazione che non si può realizzare senza il tacito consenso russo, visto che Mosca è in buoni rapporti con il generale Haftar, che controlla la Cirenaica, la zona dove dovrebbero essere portati i cittadini di Gaza. A tutto questo si lega la volontà israeliana di accelerare la disgregazione dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) per poi procedere a un’annessione della Cisgiordania. Le cose potevano cambiare se il Consiglio di sicurezza dell’ONU avesse approvato la risoluzione per un cessate il fuoco incondizionato e permanente. Ma gli USA hanno messo il veto.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Donald TrumpBenjamin Netanyahu

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