Israele è in preda a una deriva autoritaria. Gli USA lasciano fare, tanto da pensare che gli sforzi di Trump per realizzare una tregua nascondessero già la volontà di assecondare i piani di espulsione dei palestinesi e di occupazione di Gaza e Cisgiordania.
Non per niente gli americani hanno ricominciato a fornire armi all’IDF senza nessun rallentamento. Insomma, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di geopolitica del Medio Oriente, tutti gli elementi fanno pensare a una guerra che continuerà, tanto è vero che Israele starebbe pianificando un’offensiva di terra su vasta scala a Gaza. Anche i Paesi arabi, ormai, non hanno la forza di opporsi agli USA.
Il governo Netanyahu licenzia il capo dello Shin Bet, colpevole di aver indagato sulla politica di Ben-Gvir di infiltrazione di elementi della destra nazionalista nella polizi, e apre la procedura per liberarsi anche della procuratrice generale. È in atto un’occupazione del potere da parte dell’esecutivo?
Sì, certamente. A sdoganare questo approccio, già in atto prima del 7 Ottobre, ha contribuito l’avvento al potere di Trump e quello che sta facendo negli Stati Uniti, dove si sta andando in una direzione molto simile, con il tentativo del presidente USA di imporsi sul Dipartimento della Giustizia, sul mondo accademico, sui media e di dettare la linea dell’esecutivo in tutti i luoghi in cui il suo potere si può eventualmente insinuare. A maggior ragione, Netanyahu e la parte di estrema destra del governo israeliano si sente autorizzata a procedere in questo modo. Una deriva autoritaria che, nel caso di Israele, lo rimette in linea con la realtà del Medio Oriente.
In che senso?
Israele si è sempre definita “l’unica democrazia del Medio Oriente”, una democrazia, ovviamente, che valeva per i cittadini israeliani e, in parte, per quelli arabo-israeliani, e di fatto era un Paese non allineato alle forme di governo dell’area. Se ora procederà verso una svolta autoritaria, sarà perfettamente in linea con tutte le nazioni che la circondano.
I bombardamenti a Gaza sono ripresi in modo intenso, colpendo l’ospedale di Khan Yunis. Cosa c’è ancora da distruggere nella Striscia?
Da distruggere a Gaza ci sono ancora le persone. Israele ormai bombarda anche i campi di tende, perché non c’è quasi più niente che sta in piedi e che può essere un obiettivo da colpire. I proclami sui volantini che vengono lanciati per la popolazione, il fatto che venga approntata un’amministrazione ad hoc per gestire la deportazione dei palestinesi (l’Ufficio per l’emigrazione volontaria, nda), ci dice ben chiaro che cosa vuole Israele: non tanto distruggere Hamas, che, finché ci saranno palestinesi che vengono bombardati e uccisi, continuerà a reclutare tra i loro familiari, ma spingere i palestinesi ad andarsene, a lasciare Gaza.
Dagli USA non arrivano grandi dichiarazioni su questo nuovo corso. C’è accordo con Israele su questo punto o lasciano fare in attesa di chiarirsi le idee su cosa fare nel futuro?
Prima di interrompere il cessate il fuoco e proseguire con i bombardamenti, gli israeliani hanno avuto l’esplicito consenso da parte degli Stati Uniti di andare in quella direzione, ricominciando con gli attacchi ad Hamas, incolpata di non aver rispettato la tregua, di non aver rilasciato gli ostaggi.
Sembrava che Trump, rispetto a Biden, fosse più deciso nell’indicare la strada a Israele. Ora Tel Aviv è tornata a dettare la linea?
Sì, anche se potrebbero essere sempre stati gli israeliani a dettarla: nel momento in cui Trump ha insistito per ottenere una tregua, ha anche ripreso a rifornire Israele di armi, quelle che Biden negli ultimi tempi aveva trattenuto o ritardato.
Il futuro più probabile di Gaza torna a essere quello della “riviera del Medio Oriente”, con i palestinesi deportati?
Il progetto sicuramente va in quella direzione, cioè nel senso dell’allontanamento dei palestinesi non solo da Gaza, ma anche dalla Cisgiordania, dove, per la prima volta dal 1967, c’è uno sfollamento di quasi 40mila persone da tre campi profughi. Ciò che rimane da definire è dove verranno eventualmente spostati questi palestinesi: i Paesi arabi si oppongono, ma è chiaro che l’amministrazione statunitense sta esercitando fortissime pressioni affinché si pieghino a questa volontà.
La ripresa della guerra non sembra aver suscitato una reazione così decisa nei Paesi dell’area mediorientale, che pure si erano pronunciati avanzando un loro piano per il futuro di Gaza. Non sanno cosa fare?
I Paesi arabi non sapevano che cosa fare sin dall’inizio, perché comunque Israele e USA, in questo conflitto, hanno il predominio militare, e per questo i governi della regione, più che condannare, deplorare, esprimersi attraverso comunicati stampa e opporsi per quanto è possibile al piano di deportazione, non è che possano fare. Subiscono lo strapotere militare, ma anche economico e politico-diplomatico, di USA e Israele. I Paesi che si oppongono rischiano le sanzioni, il taglio agli aiuti, un embargo diplomatico. È molto difficile opporsi, anche perché non ci sono altri poteri mondiali che controbilanciano quello americano.
Israele ha attaccato anche in Libano e gli americani continuano a prendere di mira gli Houthi nello Yemen. L’immagine di pacificatore che Trump voleva dare di sé stesso comincia a sbiadirsi?
Trump ha a che fare con una realtà ben più complessa di quella che voleva far sembrare durante la campagna elettorale. Vale anche per l’Ucraina, dove la guerra cui doveva mettere fine in 24 ore sta continuando. La realtà dice che Israele vuole proseguire con i suoi piani per Gaza e per la Cisgiordania, perché non c’è mai stato un momento più opportuno di questo per agire, in cui il cosiddetto “asse della resistenza”, capitanato dall’Iran, è completamente frantumato.
All’orizzonte c’è sempre l’idea di regolare i conti con Teheran: Israele scalpita e Trump non lo esclude. Anzi, in pratica, ha concesso una tregua di due mesi prima di intervenire. Gli Houthi fanno parte di questo contesto: i loro interventi minacciano la sicurezza delle vie commerciali. Comunque non ci sono tanti segni di speranza, siamo di fronte a uno scenario di guerra.
Il nuovo capo di Stato maggiore israeliano, Eyal Zamir, è il più bellicista di sempre, Ben-Gvir è tornato nel governo, i coloni guadagnano terreno in Cisgiordania e l’esercito caccia i palestinesi dalle loro case. Tutto sembra parlare di una prosecuzione del conflitto. Ora si parla di una nuova proposta egiziana per un accordo: potrà essere presa in considerazione?
Si sapeva che sarebbe andata così e che la tregua non avrebbe retto, che non si sarebbe mai passati alla seconda fase di questo accordo, perché non è nell’interesse di Israele farlo, ancor meno quando hai un presidente degli Stati Uniti che, per risolvere un conflitto, propone di deportare due milioni di persone. Che poi gli ostaggi non siano considerati una priorità, ma che passino in secondo piano, è evidente. Se vengono rilasciati, bene; ma se non succede e finiscono martiri per la causa, va bene lo stesso.
(Paolo Rossetti)
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