Dall’acqua dolce di lago a quella salata del mare, il coraggio del salto chiede un doppio avvitamento carpiato alla maniera dei campioni di tuffi. Gigi Riva, morto nella prima serata di ieri a 79 anni all’ospedale Brotzu di Cagliari per le conseguenze di un recentissimo infarto, quell’impresa umana, prima che professionale, l’aveva fatta oltre mezzo secolo fa. Era originario di Leggiuno, piccolo paese sulla sponda varesina del Lago Maggiore, aveva tirato i primi calci al pallone nell’oratorio dietro casa per poi passare negli allievi del Laveno Mombello e al Legnano in serie C due anni e, prima del ventesimo compleanno, era già approdato a Cagliari, massima divisione.
Non si trattava di una squadra di primo piano, niente a che fare con i colossi della grandi società del Nord, così che sull’isola pensava di restare giusto il tempo per mettersi in luce e poi tornare sul continente. Invece da là non si mosse più. Un po’ perché dopo pochi anni di ambientamento contribuì in modo determinante a far vincere al Cagliari il suo primo e unico scudetto, un po’ perché la vita tranquilla vissuta lontana dei clamori calcistici (e non solo) piemontesi o lombardi abbracciava al meglio la sua indole schiva, inclina a preferire gli affetti domestici, poco adusa ai riflettori (niente affatto scontrosa, come con leggerezza hanno detto ieri sera i tg nazionali, anche se per tutta la vita combattuta fra gli alti e bassi del suo instabile umore).
Fu la sua fortuna. Dopo lo scudetto rossoblu del 1970, la Juventus si fece avanti per prima, con l’avvocato Agnelli pronto a fargli ponti d’oro pur di averlo a Torino. Rifiutò senza troppi tentennamenti, acquistò un appartamento nel centro del capoluogo e questo, senza discutere le scelte di altri che invece legittimamente risposero e continuano a rispondere al miraggio del grande palcoscenico, segnò il resto della sua esistenza. In meglio, perché fin quando calpestò i campi di gioco (era il 1977) e oltre fu osannato dai suoi tifosi e poi perché, pur rimanendo nella dirigenza societaria, continuò a rimanere in sostanza dietro le quinte, rilasciando sporadiche interviste di poche frasi con quella voce cavernosa da baritono senza pretese.
Sembra banale dirlo, ma è la nostalgia di quegli anni trascorsi attaccati alla tv in bianco e nero o alla radiolina a transistor in ascolto del secondo tempo di serie A (l’unico ad essere trasmesso, nel primo caso solo in registrata) a spingerci a rischiare di scrivere proprio la banalità: dopo Facchetti, Scirea, Anastasi e tanti altri dai nomi magari meno famosi, con Riva se ne va non una pagina di calcio, ma di storia, per quanto questo sport ha contato e continua a contare nella nostra società. Di calcio pulito, giocato anche in maniera professionale eppure ancora per divertirsi e divertire, spesso su campi privi di recinzione, una disciplina che era tale di nome e di fatto, dove chi sbagliava usciva dallo stadio per non tornarci più. Perché la maglia, la correttezza, diciamo pure l’onore veniva prima di tutto il resto. E a quella maglia si rimaneva attacchi per anni.
“Cannonata spaccapali!” tuonava il grande Nicolò Carosio dal piccolo schermo quando il Gigi da Leggiuno sparava una bordata delle sue verso la rete avversaria e “Rombo di tuono” lo aveva per questo soprannominato Gianni Brera, che quanto a soprannomi ritagliati su misura non era secondo a nessuno. Quando, dopo l’ultima partita in Nazionale (35 goal in 42 partite, record imbattuto, con la vittoria agli Europei del ’68), correndo verso la bandierina si accasciò al suolo per un tendine che lo aveva tradito (fisico possente e fragile al tempo stesso, il suo), sembrò uno dei tanti incidenti di gioco. I campioni possono anche farsi male, ma sanno rialzarsi. I tifosi non lo sapevano ancora, ma era l’inizio della fine di un’epoca. E Gigi Riva diventava un mito.
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