La Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile, istituita dall’Organizzazione internazionale del lavoro nel 2002, rappresenta un’occasione fondamentale per riflettere su una delle più gravi ingiustizie sociali ancora presenti nel nostro tempo e in molti Paesi non democratici.
Milioni di bambini, privati della loro infanzia, vengono costretti a lavorare in condizioni disumane, rinunciando al diritto all’istruzione, alla salute e a una crescita serena. Per questo è importante, per chi lavora nelle libere organizzazioni sindacali di tutto il mondo, denunciare con fermezza ogni forma di sfruttamento del lavoro minorile. Esso rappresenta non solo una violazione dei diritti fondamentali della persona, ma anche un attacco al concetto stesso di bene comune, cuore della Dottrina sociale della Chiesa.
Tutelare il bene comune significa garantire a ogni essere umano, specialmente ai più piccoli e vulnerabili, le condizioni necessarie per sviluppare pienamente la propria dignità, i propri talenti e il proprio futuro.
Affrontare questa piaga sociale richiede azioni concrete e coordinate. In primo luogo, è necessaria una più efficace applicazione delle leggi internazionali e nazionali che proibiscono lo sfruttamento del lavoro minorile, accompagnata, a livello mondiale, da una vigilanza seria e continuativa nei settori a rischio, come l’agricoltura, l’edilizia, il tessile e nei giacimenti dove si estraggono le materie prime strategiche, essenziali per la produzione di una vasta gamma di beni tecnologici, dalle energie rinnovabili alle applicazioni nel settore della difesa.
In secondo luogo, occorre investire massicciamente nell’istruzione gratuita e di qualità, come ricorda l’obiettivo quattro della Agenda 2030 dell’Onu (Istruzione di qualità: fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti), strumento imprescindibile per spezzare il ciclo della povertà e dare alle bambine e ai bambini una reale possibilità di emancipazione.
Le istituzioni politiche e le parti sociali, del mondo occidentale, devono innanzitutto sostenere le famiglie più fragili con politiche di welfare inclusive, capaci di garantire condizioni di vita dignitose che rendano inutile, oltre che ingiusto, il ricorso al lavoro dei minori per sopravvivere. Anche le imprese sono chiamate ad assumersi responsabilità etiche nella scelta dei fornitori e nella trasparenza delle filiere produttive. La lotta contro il lavoro minorile non è solo una battaglia sindacale o legislativa, ma anche una sfida morale e culturale del mondo economico, produttivo e globalizzato. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico, fino allo sfruttamento dei/delle giovani, nel mondo del lavoro o nelle lobby del sesso.
Molte persone sono più sole che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano i mercati, dove i cittadini svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il “divide et impera“.
Da queste posizioni economiche e da alcuni regimi politici populisti e non democratici, si sostiene che occorre evitare a ogni costo l’arrivo di persone migranti. Non ci si rende conto che, dietro queste affermazioni astratte e difficili da sostenere, ci sono tante vite in grande difficoltà. Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali. Altri sono alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia.
In Italia più di un milione di minori vive in condizioni di povertà assoluta. Alla privazione economica e materiale si aggiunge un’altra povertà, ugualmente grave e drammatica, ma più insidiosa e difficile da misurare. È la povertà educativa, ovvero la “privazione della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni di bambini, bambine e adolescenti”. Questa definizione, della Dottrina sociale della Chiesa, si traduce concretamente nella difficoltà o impossibilità di accedere a risorse economiche, cognitive e culturali per la promozione della propria libertà individuale, ossia della possibilità di fare esperienze educative di vario genere offerte dal territorio in cui i ragazzi e le ragazze vivono.
La povertà educativa è un fenomeno molto complesso, perché non è legato solamente all’istruzione e quindi all’abbandono scolastico, ma anche a tutta una serie di condizioni di povertà materiale, economica e sociale del nucleo familiare che conducono a trascurare e/o rinunciare all’educazione dei figli e quindi rischiano di condannare i/le giovani a un futuro di sfruttamento, lavoro povero e sommerso, basse retribuzioni e a un forte rischio di esclusione sociale. Si parla di povertà educativa quando il/la minore vede negato il suo diritto ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare le proprie aspirazioni e talenti.
Come credenti, siamo chiamati a ricordare che ogni bambino è un dono di Dio e che ogni società verrà giudicata dalla capacità di proteggere i più piccoli. Solo unendo le forze e operando per la giustizia potremo costruire un mondo in cui il bene comune e la tutela dell’infanzia ad ogni latitudine prevalga sull’egoismo e sul profitto senza morale.
Quando papa Francesco nella Enciclica “Fratelli tutti” citava “Aprirsi al mondo” ricordava anche che questa espressione “è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza”. Ma si riferiva all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli, né complicazioni in tutti i Paesi. “Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”.
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