“Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé”. Il richiamo alla dimensione della speranza fiduciosa è “il messaggio centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il papa indice ogni venticinque anni”. Sarà inaugurato con la solenne apertura della Porta Santa della basilica di San Pietro nella notte di Natale di questo 2024, prolungandosi poi fino al termine delle feste del Natale 2025, precisamente fino al giorno dell’Epifania di inizio 2026. E quelle che abbiamo citato sono le formule usate nel paragrafo di esordio della bolla di papa Francesco che lo ha annunciato ufficialmente alla cristianità del mondo intero, il 9 maggio appena trascorso: un discorso programmatico incisivo e denso di contenuti che, non a caso, ha fatto proprio della parola “speranza” l’insegna del suo titolo distintivo (Spes non confundit: “la speranza non delude”).
La speranza che l’imminente Giubileo vuole aiutare a recuperare è una speranza piena di realismo: tutt’altro che una evasione sentimentale unilateralmente spiritualizzata. È una speranza a cui guardare in mezzo a tutte le tragedie, le contraddizioni e le povertà infinite, personali e collettive, che assediano il nostro presente. La speranza messa a tema è l’àncora a cui aggrapparsi per non naufragare. Una speranza che ha a che fare con la rigenerazione dell’esistenza, cioè con la riscoperta di un significato in grado di dare una forma e un respiro nuovo alla vita nel mondo, a partire dal qui e ora, nella prospettiva di un bene che non può finire, un bene che per compiersi implica lo spalancamento all’orizzonte dell’eterno: un bene per sempre, aperto all’infinito del divino, per una pienezza di essere che non può passare se non attraverso il perdono, la riconciliazione, il riconoscimento del proprio limite, la mendicanza di una salvezza che non possiamo fabbricare con le nostre sole mani maldestre (“tutto chiede salvezza”: lo sappiamo bene).
E difatti al n. 21 della bolla di papa Francesco si ribadisce: “la felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti”. E subito dopo: “Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: ‘Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi’”.
I Giubilei, che hanno riproposto nel contesto cristiano l’aspirazione profetica della religiosità ebraica, sono stati l’occasione privilegiata per creare momenti in cui il muro di separazione tra la terra e il cielo veniva oltrepassato e con il dono di una grazia di estensione straordinaria si spalancavano per tutti la possibilità di un restauro della verità della propria coscienza, il pentimento che abilitava alla riscoperta dell’identità di creatura dipendente da Dio, un attaccamento più saldo al senso della sua presenza e infine il risanamento, almeno come umile tentativo e iniziale esperienza concreta, dei rapporti degli uomini tra loro e con le cose.
La mostra allestita nell’ambito del Meeting (Giubilei. Il perdono che ridona la vita, catalogo edito da LEV) ripercorre per sommi capi tutta questa lunga vicenda storica, dalle sue premesse più remote fino a oggi.
Si delineano, come spunto di avvio, le radici umane del desiderio del perdono, cioè di remissione delle colpe e di purificazione dei loro effetti corrosivi, che amplificano il dominio delle forze negative del male nell’ordine del sistema generale del vivere. Ne sono poi rievocate le anticipazioni nel quadro dell’Antica alleanza di Israele con il Dio unico posto a capo del suo travagliato destino di popolo eletto, a partire dalla stessa invenzione del termine rimasto in uso per etichettare l’innesto di “anni santi” di grazia speciale nel flusso lineare del tempo che scorre verso il futuro.
Il fulcro centrale della mostra è riservato alla lenta maturazione, nei secoli conclusivi della fase medievale, della pratica del pellegrinaggio alle sepolture dei due apostoli sommi, Pietro e Paolo, connessa in particolare all’istituzione del Giubileo cristiano, tra sviluppi del sistema delle indulgenze, elaborazione dei paesaggi dell’aldilà tripartito ed emergere progressivo della centralità di Roma come mediatrice per eccellenza dei tesori della redenzione inaugurata da Cristo con il sacrifico supremo della croce.
Si giunge così alla svolta del 1300, al radicamento dell’istituto dei Giubilei nella storia religiosa dei secoli successivi, alle fratture e alle contestazioni che ne hanno condizionato l’evoluzione fino alla chiusura dell’Antico Regime, quindi di nuovo in dialettica con l’avanzata della secolarizzazione prodotta dalla modernità più avanzata.
L’esito a cui si approda è quello della “ricentratura sull’essenziale” che caratterizza l’ultimo Novecento e i papati più recenti, nella loro sostanziale unità di fondo. A fronte dell’estensione della capacità di attrazione dei Giubilei in senso universale, che ha spalancato il cattolicesimo contemporaneo alla sua primigenia vocazione planetaria, ciò a cui si è assistito è il recupero del primato dell’iniziativa di Dio che viene incontro al bisogno inesauribile dell’io umano e lo abbraccia risanando le sue ferite. Un Dio giusto, ma ripieno di carità. Che è carità in sé stesso. Lui per primo si piega nello slancio di una misericordia maternamente feconda per accogliere, dentro lo spazio di una comunione ristabilita, ogni figlio ribelle che aveva avuto la presunzione di poter rivendicare la sua precaria indipendenza, franata sulla miseria di conquiste dal sapore amaro, incapaci di mantenersi all’altezza di attese senza misura.
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