Questo articolo inaugura la pubblicazione di una serie di contributi scritti da politici e dedicati al Giubileo 2025 (ndr).
Sono cresciuta in una famiglia molto cattolica, e la nonna, con origini di contadina bergamasca, viveva con noi. La parola “pellegrinaggio”, proprio grazie a lei, l’ho imparata fin da piccola. Per lei era importante farsi accompagnare, anche da me, in pellegrinaggio nei luoghi vicini a casa: Caravaggio, Sotto il Monte Giovanni XXIII, luoghi che si raggiungevano con poco viaggio e dove poi si andava a pregare.
Per me era trascorrere una domenica diversa e magari unirci altro, com la raccolta delle castagne a Sotto il Monte, ma anche l’esperienza di conoscere storie e luoghi. Mi ricordo, per esempio, uno stop forzato sulla Cisa, causa traffico intenso, e la visita del Santuario della Madonna della Guardia a Berceto.
Anche lì, ancora piccola, rimasi incantata dagli ex voto appesi e provai a leggere le storie. Lo dico senza vergognarmi: fino ai miei vent’anni il termine “pellegrinaggio” era più rivolto a questi aspetti; un piccolo viaggio con in testa una destinazione dove vedere qualcosa e dire una preghiera.
Sembra molto brutto e arido, ma spesso serve un evento per farci capire il vero significato di una parola con cui abbiamo familiarità. A me sembrava di averne acquisito da tempo il valore: avevo chiaro che molte delle religioni avevano i pellegrinaggi dentro i loro “precetti”. Cristianesimo, ebraismo, islamismo (a scuola da studentessa li ripetevamo tutti).
L’episodio che mi ha aiutato a dare vero valore a questa parola, forse a capirla fino in fondo e a provare a praticarla davvero, è legato ad un esame in università. Facoltà di lettere, Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, esame di letteratura italiana tre, monografia su Ungaretti. Professor Francesco Mattesini, che era anche frate, ma qui non c’entra.
Ecco che nella lettura approfondita di Vita di un uomo mi imbatto in una poesia tratta da L’allegria che si intitola Pellegrinaggio. La riporto perché merita e perché, senza di essa, non riuscirei a spiegarmi. “In agguato / in queste budella / di macerie / ore e ore / ho strascicato / la mia carcassa / usata dal fango / come una suola / o come un seme / di spinalba. / Ungaretti / uomo di pena / ti basta un’illusione / per farti coraggio / Un riflettore / di là / mette un mare / nella nebbia”.
Per me fu la svolta, quasi un’epifania: Ungaretti intitolava una delle sue poesie di guerra proprio Pellegrinaggio. Eppure non c’era apparentemente alcun viaggio, non la preghiera. Ma quella poesia arrivava come un pugno nella sua brutale e meravigliosa rivelazione della parola. Non avevo capito niente fino ad allora. Grazie ad un poeta in guerra nelle trincee, invece, in quel momento comprendevo a fondo la parola (e in fondo Ungaretti è il poeta della parola, una parola che spinge ad interrogarti).
Perché in quella poesia il viaggio (quel trascinarsi nel fango per ore) è, in realtà, tutto interiore ed è il viaggio che aiuta a cambiarti e a cambiare prospettiva. Perché nel buio della trincea e del male, mentre l’uomo è ridotto quasi come un animale, una “carcassa”, quasi oggettificato, ecco che affiora qualcosa, un ricordo (il seme di spinalba), un’immagine che offre coraggio. E il riflettore trasforma nell’illusione la nebbia in mare.
Il pellegrinaggio è la volontà del singolo di farsi attraversare dall’esperienza del “durante”. Non esiste pellegrinaggio senza cambiamento. Se vuoi fare pellegrinaggio, e quindi cambiare, devi lasciarti attraversare dall’esperienza, accogliere ciò che incontri, metterti nella prospettiva che la strada è il cambiamento.
Se decidi di fare pellegrinaggio, decidi di mettere in discussione anche un po’ te stesso, perché qualcosa di te cambierà sicuramente. E il viaggio, quindi, è anche e soprattutto metaforico, dentro di noi. Penso di poter dire che ho fatto “pellegrinaggio” a scuola, da insegnante, quando nelle fatiche di incontri con studenti o studentesse non semplici ho accettato la sfida di mettermi in gioco, perché l’incontro non può mai essere a senso unico, e forse ho trovato proprio in questa mia versione del pellegrinaggio la strada educativa più bella e arricchente.
Perché insegnare è un pellegrinaggio, è un viaggio insieme nella quotidianità, con responsabilità diverse ma dove l’adulto, l’educatore, si deve far carico di aiutare i suoi studenti a compiere il viaggio. E ad evitare che lo interrompano. “Non perderli per strada”. Non sempre il pellegrinaggio è di successo, a volte è fallimentare ma mai disarmante. Occorre accettare che esiste altro da ciò che conosciamo, e che non è detto che sia sbagliato: semplicemente è diverso.
E mi piace pensare di aver fatto pellegrinaggio in politica, in questi anni di attività parlamentare, tutte quelle volte che ho consentito agli eventi di interrogarmi. Quando ho consentito alle mie certezze di non essere granitiche. Quando ho riconosciuto nell’altro diverso da me, nel collega avversario, nella collega appassionata, le stesse ragioni mie nel voler cambiare il mondo. Quando non ho consentito all’ideologia di prendere il sopravvento, ma mi sono abbandonata allo sguardo di un’altra prospettiva.
Il pellegrinaggio è fatica perché è “passaggio”. Perché richiede lo sforzo di accettare che esista un percorso definito solo in apparenza (il punto di partenza, la destinazione): non sai cosa ti porterà il viaggio. Di una cosa puoi essere certo: il pellegrinaggio ti aiuta a capire chi sei, e come vorresti essere. La destinazione è identica per tutti.
E allora penso che anche le castagne raccolte a Sotto il Monte mi abbiano portato qualcosa. E che la fede semplice e incrollabile di una contadina bergamasca nata nel 1905, che voleva che l’accompagnassi nel suo pellegrinaggio vicino a casa, mi continui a sfiorare, proprio in questo Giubileo.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.