Giudici USA ribadiscono il diritto dei migranti irregolari al giusto processo, bloccando le deportazioni arbitrarie: è scontro con la Casa Bianca
I tribunali federali statunitensi, secondo quanto riportato da il New York Times, hanno recentemente ribadito che i migranti, anche quelli classificati come “nemici stranieri” sotto l’Alien Enemies Act del 1798, hanno il diritto di contestare le deportazioni davanti a un giudice, una posizione che si scontra frontalmente con l’indirizzo della Casa Bianca, decisa ad accelerare le espulsioni senza passare dal vaglio di un processo ma nonostante le dichiarazioni del presidente Trump – che a CBS News ha sostenuto la necessità di “rimuovere ogni singola persona irregolare”– e le minacce del consigliere Stephen Miller di sospendere l’habeas corpus (storica garanzia costituzionale contro la detenzione arbitraria), la magistratura ha bloccato i tentativi dell’esecutivo di bypassare le tutele garantite dalla legge.
La Corte Suprema, in una decisione centrale, ha ricordato che il giusto processo è “determinante” per i migranti, proprio perché il governo, una volta eseguita la deportazione, si rifiuta quasi sempre di riammettere chi è stato allontanato illegalmente, un atteggiamento che priva l’errore di ogni rimedio, lasciando chi ne è vittima – secondo il pensiero dei giudici statunitensi – prigioniero in un Paese dove magari non ha più legami o protezioni.
Un caso simbolico è quello di Kilmar Armando Abrego Garcia, cittadino salvadoregno deportato lo scorso marzo nonostante fosse ancora pendente un ordine giudiziario contrario, che avrebbe dovuto bloccare l’espulsione: la Corte ha imposto all’esecutivo di “facilitare il suo rilascio” in El Salvador, ma l’uomo rimane ancora detenuto, a riprova – secondo i giudici – di un atteggiamento ostile ai vincoli legali da parte dell’amministrazione.
Giudici USA sul tema migranti: il caso Abrego Garcia e lo scontro con la Casa Bianca
Il caso di Abrego Garcia, attualmente bloccato in un limbo legale nonostante l’intervento della Corte Suprema, è diventato il simbolo concreto della battaglia istituzionale per i diritti dei migranti, in quanto, dopo una deportazione avvenuta in violazione di un ordine giudiziario, la Corte ha ordinato all’amministrazione Trump di garantire al cittadino salvadoregno lo stesso giusto processo che avrebbe ricevuto sul suolo americano, ma la Casa Bianca ha ignorato la direttiva, costringendo i giudici a un confronto diretto con l’esecutivo, in una battaglia colpo su colpo che ha assunto rilievo politico oltre che legale.
La giudice federale del Maryland, Paula Xinis, ha aperto un’indagine sull’inosservanza degli ordini giudiziari, mentre il giudice conservatore della Corte d’Appello J. Harvie Wilkinson ha condannato duramente la prassi di “nascondere residenti in prigioni straniere senza il minimo rispetto per il processo dovuto”, una critica che assume particolare importanza proprio per la sua provenienza da un esponente della sfera giudiziaria tradizionalmente vicina a posizioni restrittive in materia migratoria.
Nel frattempo, in Massachusetts, una corte ha stabilito che ai migranti deve essere garantito un preavviso minimo di 15 giorni prima dell’espulsione in Paesi terzi dove potrebbero subire persecuzioni, come nel caso di alcuni uomini trasferiti da Guantánamo a El Salvador, decisione che segue lo stesso principio di base dei giudici: ogni individuo, indipendentemente dal suo status, ha diritto a conoscere il proprio destino e a contestarlo.
Proteste simili hanno poi bloccato piani di deportazione verso la Libia, dove i richiedenti asilo – secondo i tribunali – sarebbero potuti essere esposti a gravi rischi, a dimostrazione di come il potere giudiziario stia intraprendendo un braccio di ferro sempre più serrato con l’amministrazione Trump, insistendo sulla necessità di bilanciare il controllo delle frontiere con il rispetto dei vincoli costituzionali.