GIULIA TRAMONTANO/ E la furia di Impagnatiello: possiamo raccontarlo come se niente potesse toccarci?

- Federico Pichetto

Alessandro Impagnatiello ha ucciso Giulia Tramontano e suo figlio di 7 mesi. Oltre le analisi degli esperti, il dramma di una libertà. Un dramma che è anche nostro

impagnatiello omicidio giuliatramontano 1 lapresse1280 640x300 Alessandro Impagnatiello (LaPresse)

Nella testa di Alessandro Impagnatiello, l’autore del duplice omicidio di Senago in cui hanno perso la vita Giulia Tramontano di 29 anni e il figlio Thiago che la giovane portava in grembo, andava probabilmente in scena un film di successo. Ed è per questo che gli inquirenti hanno definito l’assassino come un Narciso. È proprio delle personalità narcisistiche, infatti, partire dall’ammirazione percepita dagli altri per costruire una storia di grandezza in cui il protagonista può gestire e controllare tutto. Ogni evento positivo, alla luce di questi inganni della mente, diventa così la conferma di una sorta di tocco magico, di predilezione divina, che autorizza il soggetto ad osare sempre di più e a sentirsi custodito da una patina di invulnerabilità e di impunità.

Chi si incarica di smascherare il Narciso, vuoi mettendolo dinnanzi alla realtà delle proprie azioni, vuoi privandolo dell’ammirazione di cui si sente in diritto, o vuoi smascherandolo davanti a terzi e pretendendone la capitolazione, si trova in grave pericolo. La reazione, infatti, è sempre violenta e tende a tracimare l’alveo del lecito e del tollerabile.

La furia omicida di Impagnatiello, barman di grido nella Milano bene, muove dunque dal tremendo verdetto di colpevolezza che aveva emesso nei confronti di Giulia, rea di avergli chiesto un’assunzione di responsabilità precisa dopo aver scoperto la relazione di Alessandro con un’altra ragazza italo-inglese che si era rivolta alla vittima proprio per metterla in guardia dalla personalità e dalle azioni del compagno. Di fronte alla realtà tutto cade, nessuna impalcatura della mente regge. E perfino la morte di un figlio, ormai prossimo alla nascita, appare un danno collaterale rispetto all’esigenza che le cose siano come la nostra psiche ce le racconta.

Eppure, in questa vicenda non c’è solo la necessaria analisi psicologica che gli investigatori e i media hanno diffuso, ci sono altri elementi che non sono stati sottolineati, ma che in realtà sono decisivi.

In primo luogo, la solitudine di Impagnatiello: la mente prende il sopravvento quando manca il confronto, il dialogo, la compagnia di qualcuno che cura i pensieri con una buona dose di realtà. È invece sintomo del nostro tempo lasciare le persone sole, permettere loro di costruirsi una vita al di fuori di ogni rete e tessuto sociale, rifiutando ogni forma riconosciuta di appartenenza, rifiuto che apre le porte non ad un’esistenza libera, bensì – e in questa storia lo si vede benissimo – alla prigionia dei pensieri.

Quella di Alessandro non era un’esistenza inevitabilmente determinata dalla propria personalità, ma una possibilità. Il male che segna indelebilmente l’orrore di questa doppia morte non era ineluttabile: poteva davvero essere fermato. Ma non era la società a poterlo fare, con un’educazione meno tossica o con un maggiore controllo sociale. Certo, in tanti potevano cogliere il conflitto di quell’animo e spendersi per accompagnarlo, e tanto si può fare per indicare modelli di umanità che rifiutino sempre la violenza. Ma non basta: tutto quello che siamo e tutto quello che potremmo essere è in ultima istanza sempre consegnato alla nostra libertà. Alessandro era libero, è sempre stato libero. Il narcisismo non giustifica, ma innesca una pulsione, la solitudine non spiega, ma amplifica quella pulsione. E ogni pulsione, anche quella più radicale, finisce sempre per essere messa nelle mani della nostra libertà.

La lunga tradizione cristiana chiama tutto questo “peccato”. L’uccisione di Giulia e di Thiago è, a tutti gli effetti, un peccato. Senza questa verità, senza questo sguardo ultimo su quello che è accaduto, ogni cosa che accade finisce per provocare un ipocrita polverone che non ci cambia. Mentre tutta l’esperienza umana, tutta l’esperienza di noi peccatori, grida il bisogno di un cambiamento, urla la necessità di una redenzione.

Fa impressione leggere i giornali di queste ore: tutto sembra ridursi ad un processo sommario che non ci riguarda, come se il male che abita l’assassino di Senago non avesse casa nella violenza con cui ci trattiamo, ci guardiamo, sottilmente ci rapportiamo gli uni con gli altri. Quel male e quel dolore posso generarli anch’io, posso compierli anch’io. Magari non nelle stesse proporzioni, ma certamente nelle stesse ultime conseguenze: la perdita della mia umanità.

Impagnatiello è diventato disumano portando alla fine due esistenze, ciascuno di noi può diventare disumano in ogni istante: basta assecondare gli impulsi che ci abitano e che hanno bisogno di salvezza. Perché la fine di questa vicenda, anche se adesso sembra assurdo, non potrà essere l’odio: la fine potrà solo esserci nell’amore. In qualcosa che riscatti e sia più grande di quel male, di quell’efferatezza, di quel buio tragico che ha coperto il cammino di Giulia e di Thiago.

È facile raccontare la realtà come se niente potesse toccarci. Ma è difficile, al contrario, guardare fino in fondo alla nostra oscurità e sorprendere, anche nel trionfo delle tenebre, il sospetto di un’imminente speranza. Per questo non bastano le analisi e l’intelligenza degli esperti. Occorre l’abbraccio di Qualcuno che in fondo tutti stiamo aspettando.

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