In tema di giustizia si sta accedendo uno scontro politico che rischia di far dimenticare i problemi seri da risolvere
Non c’è speranza. I primi commenti dopo l’approvazione della legge di riforma costituzionale sulla giustizia hanno ampiamente dimostrato come tutto si giocherà attorno a una battaglia di slogan. Con toni apocalittici o rivoluzionari da entrambe le parti. Come se la separazione delle carriere dei magistrati e la creazione di due distinti Consigli superiori fossero visti da una parte una strada per il paradiso e dall’altra l’apertura delle porte dell’inferno.
E allora forse val la pena approfittare dell’occasione per allargare lo sguardo guardando al di là, e soprattutto al di sopra, delle narrazioni correnti attorno al tema della giustizia. Magari ritornando a leggere tutto il Titolo IV della Costituzione sottolineando che prima dell’articolo 104, quello che dice “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, c’è un articolo 101 dove si dice che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.
La riforma costituzionale interviene modificando tutte le parti che riguardano il Consiglio superiore della magistratura, che viene infatti sdoppiato, ma non modifica l’articolo 101 così come non modifica la prima frase dell’art. 104 “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” aggiungendo unicamente “ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”.
E allora? E allora è chiaro che ci può e ci deve essere un’indipendenza strutturale, organizzativa, funzionale, ma dovrebbero esserci confini chiari e non discrezionali nell’interpretazione delle leggi. “Dura lex sed lex” è un’eredità del diritto romano che deriva da un passo del giurista Ulpiano (Domitius Ulpianus), contenuto nel Digesto in cui si legge: “duriim hoc est, sed ita lex scripta est” (“ciò è alquanto duro, ma la legge è stata scritta così”).
E invece spesso torna d’attualità il giudizio per cui la legge si applica per i nemici e si interpreta (benevolmente) per gli amici. Così come le motivazioni di imputazioni prima e sentenze poi, che tengono esplicitamente conto più dell’evoluzione, vere o presunte, dei valori sociali che dell’intendimento originario del legislatore.
È in questa prospettiva che invita alla riflessione il libro con due saggi di Raimondo Cubeddu e Pier Giuseppe Monateri (con prefazione di Nicolò Zanon) “I signori del diritto, il potere più irresponsabile” (Ed. Ibl libri, pagg. 210, € 18), un libro che non si ferma al problema, pur rilevante, degli assetti della magistratura, ma che va alla ricerca del perché si è arrivati a quella che viene chiamata “tirannia del diritto”.
“Quello che accade dietro le quinte – sottolinea Monateri – è che il giudizio tecnico si innesta in una scelta valoriale. Non si tratta più di dire ‘questo è vietato dalla legge’, ma ‘questo non è coerente con la lettura evolutiva della Costituzione’, oppure ‘questa norma non risponde ai parametri internazionali dei diritti umani’, oppure ancora ‘questa politica è priva di razionalità, quindi illegittima’. Siamo passati dalla legalità alla giurisprudenza creativa, e dalla giurisprudenza creativa a una forma di potere diffuso senza investitura”.
Basti pensare all’inchiesta, ancora in corso, sulle scelte urbanistiche di Milano, un’inchiesta, come ha indicato il giudice del riesame, basata più sull’esistenza di un presunto “sistema di corruzione” che di specifici fatti penalmente rilevanti con una “svilente semplificazione argomentativa”.
Il libro di Monateri e Cubeddu non entra nel merito della proposta riforma costituzionale, ma, come detto, costituisce un invito alla riflessione guardando alle radici della crisi della giustizia.
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