Il giallo, inteso come genere letterario o cinematografico, quello che in inglese chiamano mystery o whodunit, in cui tanto l’investigatore quanto il lettore/spettatore debbono indovinare chi ha compiuto un delitto o dare una spiegazione all’inesplicabile, è di fatto un gioco, una sfida tra chi crea e chi fruisce, tanto che sono stati creati gioco di ruolo, di società, videogame eccetera. È consequenziale quindi che Glass Onion, seguito del fortunatissimo Cena con delitto – Knives Out, sia un gioco esplicitamente, fin dalle sue premesse, raccontando così anche il nuovo capitalismo “gamificato”, in cui le regole economiche sono state piegate all’esperienza del gioco.
Come nel primo film, il regista e sceneggiatore è sempre Rian Johnson e il protagonista sempre Daniel Craig nei panni di Benoit Blanc, il più celebre investigatore del mondo, il quale è invitato nella sontuosa magione del miliardario Miles Bron (Edward Norton) per giocare a un weekend con delitto assieme ad alcuni amici e protetti di Bron. Solo che Blanc è stato invitato per errore e il gioco sta per trasformarsi improvvisamente in una vera tragedia.
Dopo il successo del prototipo, Netflix si è accaparrata la distribuzione del seguito (uscito per qualche giorno anche al cinema, come sempre) e Johnson quindi ha avuto carta ancora più bianca del solito nel proseguire il lavoro del precedente, ossia da una parte destrutturare le tradizionali regole del giallo classico, quello teorizzato da S. S. Van Dine e Agatha Christie (il confronto con la serie Poirot fatta da Kenneth Branagh è a tutto vantaggio di Knives Out), dall’altra continuare a usare quelle regole per fare satira sociale.
Ovviamente, la formula è simile al primo film visto, la creazione in serie è parte integrante della creazione dei mystery per cui sia la struttura, sia l’ambientazione, sia le funzioni dei personaggi (per esempio, l’apparizione a metà film di un insospettabile aiutante per Blanc; la rilettura di tutto il mistero posta a metà film, non come al solito nel finale) sono simili e variate. Al cuore del film c’è quindi un certo tipo di borghesia da sfottere, in questo caso quella finanziaria che, dall’alto dell’auto-finzione da social media, controlla e ricatta, crea false verità e gestisce economia e politica (“È pericoloso confondere il parlare senza pensare col dire la verità”, dice Blanc all’influencer-imprenditrice fallita).
Come il precedente, Glass Onion (il cui nome fa riferimento all’imponente palazzo di vetro di Brown, che le scenografie di Rick Heinrichs e la fotografia di Steve Yedlin sfruttano bene per giocare su apparenze, trasparenze e distorsioni dei riflessi) è un trattato giocoso e orgogliosamente sopra le righe sulla lotta di classe contemporanea, che non chiede di essere preso sul serio come il “gemello” Triangle of Sadness, ma che mentre stimola la risata e la curiosità dello spettatore racconta della rivolta di chi è oppresso contro i nuovi oppressori: la risoluzione è poco politica e molto istintiva, ovvero il caro vecchio luddismo distruttivo, eppure è un modo originale per condurre la risoluzione del gioco.
Che in questo caso è un po’ più macchinoso e meno agile nel racconto e nella regia, ma non di meno è un veicolo di intrattenimento d’alto bordo efficace e molto piacevole, grazie soprattutto alle trovate della sceneggiatura e a un gioco d’attori spassoso fin nei minimi cameo (come quelli, gli ultimi, di Angela Lansbury e Stephen Sondheim a cui il film è dedicato), capitanati da un irresistibile Craig, perfetto nel suo essere fuori posto.
Glass Onion concentra tutti gli sforzi dei suoi realizzatori, tutte le sue complicazioni e sospensioni dell’incredulità, per non farsi sentire e vedere, per concedere solo una serata divertente. Proprio come una partita di un gioco di società.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.