Ieri mattina la portaerei nucleare USS Dwight D. Eisenhower (CVN-69) Carrier Strike Group ha attraversato lo Stretto di Gibilterra ed è arrivata nel Mediterraneo. Ne dà conto ItalMirRadar, precisando che la “Ike” era salpata il 14 ottobre scorso da Norfolk, in Virginia, originariamente diretta al quadrante a sud di Cipro, ma attualmente riassegnata al Golfo Persico, quindi in rotta verso Suez. La CVN è la piattaforma per il Carrier Air Wing 8, con i “Ragin’ Bulls” dello Strike Fighter Squadron (VFA) 37 – F/A-18E; i “Blacklions” del VFA 213 – F/A-18F; i “Golden Warriors” del VFA 87 – F/A-18E; e i “Tomcatters” del VFA 31 – F/A-18E. Negli hangar della portaerei anche i “Lupi Grigi” dell’Electronic Attack Squadron (VAQ) 142 – EA-18G; i “Bear Aces” dell’Airborne Command and Control Squadron (VAW) 124 – E-2D; le “Rawhides” del Fleet Logistics Support Squadron (VRC) 40 – C-2°. E gli elicotteri “Spartans” dell’Helicopter Maritime Strike Squadron (HSM) 70 – MH-60R, con i “Tridents” dell’Helicopter Sea Combat Squadron (HSC) 9 – MH-60S. Il gruppo di battaglia della Ike vede schierati anche l’incrociatore USS Normandy (CG-60), con base a Norfolk, Virginia, e lo squadrone cacciatorpediniere 2, con l’USS Ramage (DDG-61), la USS McFaul (DDG-74) e l’USS Thomas Hudner (DDG-116).
Nel frattempo, l’altra portaerei Usa, la Gerald Ford con il suo Carrier Strike Group, continua a solcare il Mediterraneo orientale, proprio a sud-ovest di Cipro, senza avvicinarsi troppo alla costa israeliana (a circa 200 miglia nautiche), fuori dal raggio d’azione dei missili anti-nave di Hezbollah, come il Noor di fabbricazione iraniana (noto anche come C-802) e lo Yakhont di fabbricazione russa, ordigni che rappresentano una minaccia considerevole soprattutto per la loro gittata. Va detto che nessuna risorsa navale è impermeabile alla minaccia dei missili antinave. Le potenziali conseguenze di un tale attacco su un gruppo d’attacco di portaerei sono gravi, compresa la perdita di risorse preziose e la potenziale escalation di conflitti regionali.
L’asset statunitense nell’area è chiaro: garantire protezione allo Stato di Israele e costruire deterrenza all’estensione della guerra, soprattutto dopo l’inizio di fatto delle operazioni terrestri sul settore nord di Gaza. Operazioni di cui solo finti ingenui s’interrogano sullo scopo, che è invece assolutamente evidente e dichiarato: azzerare lo jihadismo di Hamas nella Striscia, che ha trascinato la popolazione civile in questo conflitto, e anzi se ne fa scudo per tentare di evitare le bombe israeliane. Alcuni centri di comando di Hamas, guarda caso, risultano costruiti proprio sotto gli ospedali di Gaza.
Il problema vero, però, resta l’Iran, la sua risposta, i comandi che impartirà alle sue legioni straniere degli Hezbollah nel sud del Libano e nei guerriglieri più estremisti di Fatah nella West Bank, negli sciiti Huthi nello Yemen, tutti fanatici indottrinati in chiave anti-Occidente. Anche per questo è stato deciso lo schieramento della Ike nel Mar Rosso, un quadrante certamente più agevole per monitorare ed eventualmente rispondere ad attacchi nell’area.
In questa polveriera, Onu e Unione Europea, in pratica l’Occidente, si rivelano ancora una volta sparsi in una nebulosa di distinguo e posizioni diverse, l’Onu come sempre impotente (e fino a quando varrà il diritto di veto dei cinque membri permanenti non si potrà mai arrivare non già ad un’azione concreta, ma anche solo ad una risoluzione di pace), e l’Europa attendista e sfumata, forse concorde solo nel dire che è vicina al popolo israeliano ma che bisogna salvaguardare le vite palestinesi. Un’equazione disarmante tanto quanto impossibile.
In realtà, le vite palestinesi andrebbero salvate soprattutto dagli stessi palestinesi, che potrebbero finalmente rivoltarsi contro chi agisce non per il loro bene, ma solo per praticare la loro ragione sociale, cioè distruggere Israele. È bene ricordare che Hamas governa la Striscia dopo il golpe militare contro l’Autorità Nazionale Palestinese e la guerra civile che ne è scaturita, nel 2006.
La sbandierata “causa palestinese”, dunque, è stata interpretata da Hamas (leggi Iran) solo come causa anti-Israele, alimentando costantemente scontri e tensioni proprio per tenere viva la mission. Anche i (timidi) tentativi di reazione del popolo di Gaza (nel 2019 con il movimento “Vogliamo vivere!”, e adesso con il lancio della campagna “Hanno sequestrato Gaza”) sono stati subito soffocati da Hamas, che ha accusato un’orchestrazione del nemico.
A questo punto, ipotizzando un prossimo futuro, molti parlano del trasloco dei palestinesi di Gaza in altra regione, e indicano il Sinai. Dimenticando che tre quarti del territorio della penisola asiatica egiziana sono inospitali e desertici, e che il rimanente ospita a sud gli insediamenti turistici affacciati sul Mar Rosso, che garantiscono una buona parte delle entrate in valute forti dello Stato, e a nord, sul Mediterraneo, da Suez a Al Arish, è già sensibilmente abitato. Facile comprendere la riottosità di al-Sisi ad aprire il varco di Rafah, creato nel 1979 sulla base del trattato di pace tra Israele ed Egitto. Meno giustificabile il tira e molla sul via libera ai convogli umanitari. Sembra che l’Egitto voglia evitare passaggi di persone e tema che se si faranno entrare convogli a Gaza l’aviazione israeliana potrebbe bombardarli. In ogni caso al-Sisi ha ribadito che l’afflusso di migliaia di profughi palestinesi in Egitto sarebbe una minaccia per la pace nell’intera regione.
Il destino dei palestinesi, dunque, resta quanto mai incerto: l’unica possibilità sembrerebbe un compromesso che veda i due milioni di Gaza trasferirsi nella West Bank, e i coloni di Cisgiordania abbandonare quelle terre definitivamente. Nascerebbero così le due nazioni che più volte sono state invocare per una (con)vivenza in quella che per entrambi i popoli è la terra molto promessa, ma spesso non mantenuta.
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