Una guerra con il Pakistan e la guerra dei dazi tra USA e Cina che potrebbe favorirla. L’India ormai è considerata più di un Paese emergente, diventando un punto di riferimento dal punto di vista geopolitico non solo per l’Asia.
Oggi, però, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, dopo l’attentato che nel Kashmir ha causato 26 morti, rischia un conflitto con il Pakistan, più pericoloso di quelli già in atto in diverse parti del mondo, perché a confrontarsi sono due potenze nucleari.
Allo stesso tempo Nuova Delhi potrebbe avvantaggiarsi grazie allo scontro tra Pechino e Washington sui dazi. Apple ha annunciato che sposterà in India l’assemblaggio degli iPhone per il mercato USA e qualche altra azienda potrebbe seguirla, anche se il mercato indiano non è così facile da conquistare.
L’attentato nel Kashmir indiano ha riacceso gli animi (mai sopiti) con il Pakistan. Dopo Ucraina, Gaza e tante altre guerre dimenticate si rischia un conflitto anche qui?
Se c’è un luogo dove può scoppiare una guerra nucleare non è in Ucraina o tra Corea del Nord e del Sud, ma nella regione fra India e Pakistan. Facevano parte dello stesso Paese, ma poi sono stati divisi tra indu e musulmani, innescando un processo che ha portato a milioni di morti. E dopo quasi 80 anni la tensione tra loro è ancora alta.
Difficile che l’attentato sia stato pianificato dal Pakistan in quanto tale, anche se parliamo di una nazione che ha problemi di stabilità, in cui probabilmente è in atto uno scontro fra moderati e revanscisti. Non è improbabile però che, come è successo in passato, dietro ci siano i servizi segreti pakistani.
Ma con quale motivazione avrebbero agito?
Tutto si spiega con l’odio fra i due popoli, come tra gli israeliani e i palestinesi, nato nel 1947 con la divisione, appunto, fra India e Pakistan tra un’area a maggioranza indu e una a maggioranza musulmana. Una spartizione in realtà niente affatto facile, perché non c’era una divisione così netta tra le due popolazioni nei territori.
Ma c’è veramente un rischio di guerra?
C’è sempre il rischio di guerra fra India e Pakistan, è continuo, permanente. Basta pensare che fra un Paese di un miliardo e 400 milioni di abitanti e un altro di 250 milioni, con le stesse tradizioni culturali, c’è un solo passaggio di frontiera, nel Punjab. Hanno pochissimi rapporti: dovrebbero essere come il Belgio e l’Olanda e invece sono come Israele e Siria.
L’India è già un punto di riferimento a livello geopolitico e dopo la guerra dei dazi dichiarata da Trump, un’azienda come Apple ha deciso di spostare lì l’assemblaggio degli iPhone che ora viene realizzato in Cina. L’obiettivo americano del decoupling dai cinesi si realizzerà anche così?
Se si tratta di spostare gradualmente qualche cosa dalla Cina all’India questo è possibile. Una sostituzione tout court di un Paese con l’altro è molto più difficile: c’è ancora un divario troppo grande. Qualche anno fa il Partito comunista cinese ha stabilito che per il centenario della nascita della Repubblica popolare, nel 2049, la Cina si proclamerà una superpotenza.
Più o meno la stessa cosa l’ha fatta anche il primo ministro Narendra Modi annunciando che nel 2047, centenario dell’indipendenza, l’India diventerà una potenza economica: l’obiettivo è di passare da un’economia di 3.400 miliardi l’anno a una da 30mila miliardi di dollari. Ma i due Paesi non sono ancora allo stesso livello.
Che differenze ci sono, allora, fra Cina e India al di là dei loro programmi ambiziosi?
Intanto c’è una differenza sostanziale nei programmi: la Cina pensa a diventare una superpotenza, l’India al successo economico. Nuova Delhi, però, non riuscirà a raggiungere i 30mila miliardi l’anno di PIL: ha ridotto notevolmente la povertà, ma è ancora indietro rispetto alle intenzioni.
Mentre la Cina non solo ha i ricchi, ma anche una middle class molto vasta con lo stesso potere di acquisto occidentale, in India la classe media cresce, ma ha una capacità di acquisto molto diversa. La Cina, inoltre, è una dittatura: quando Deng Xiaoping decise che Shanghai doveva diventare quella che è oggi, non ci mise molto a farlo; l’India, invece, è una democrazia, e la ricerca di consenso rende sempre più lento lo sviluppo.
Gli americani potrebbero usare comunque l’India minacciando la Cina di spostare lì le loro aziende? E Nuova Delhi cercherà di sfruttare la situazione a suo vantaggio?
L’India cercherà sicuramente di sfruttare a proprio vantaggio questo momento favorevole, però quando gli americani criticano (a ragione) i cinesi, sostenendo che impediscono alle aziende straniere di entrare in Cina e di conquistare il mercato interno, sanno anche che l’India, da questo punto di vista, non è molto diversa.
Ogni imprenditore straniero sa che se vuole avviare un’azienda in India deve parlare con il governo centrale, poi con quello dello stato e via via con tutte le autorità locali. Un po’ come da noi, anche peggio.
Gli indiani, comunque, hanno un grande programma economico. Qual è la strategia di Modi?
Modi ha lanciato il piano “Make in India”, che però non si rivolge alle aziende occidentali, ma a quelle indiane che in questi anni hanno investito all’estero, nell’industria britannica, ad esempio. È un invito ai grandi imprenditori indiani a tornare a investire in India. Se uno straniero vuole investire nel Paese gli aprono le porte, ma con molta cautela. Non sono molto diversi dai cinesi in questo senso.
Quindi questa decisione di Apple, come può essere interpretata? Può essere la testa di ponte di altre aziende americane in India?
Ci sono diverse grandi aziende che hanno già investito in India. Penso a Walmart, che tuttavia poi si è ritirata. Alcune hanno ridotto gli investimenti perché è un mercato difficile in cui entrare. Apple si è mossa in questo modo perché produce in gran parte in Cina e pensa di andare in India per sfuggire ai dazi. Ma nel momento in cui Xi Jinping e Donald Trump si incontrano potrebbe anche recedere dalle sue intenzioni.
Andare in India a produrre è comunque vantaggioso in termini di costi?
Il lavoro in India costa meno perché la Cina già ha cominciato quel processo che l’Occidente ha già vissuto, di rivendicazioni simili a quelle dei sindacati italiani, inglesi, francesi. In questo momento, comunque, anche altre aziende come Apple potrebbero pensare all’India come alternativa per sfuggire ai dazi sulla Cina. Ma è corretto ragionare anche sul futuro.
E qui bisogna vedere come si comporterà Trump sulle tariffe: l’India è stata colpita, anche se i rapporti fra Trump e Modi sono molto stretti. Le aziende possono usare l’India come arma di pressione. Il presidente USA ha scatenato questa necessità di andare a cercare altri mercati, tanto è vero che ora si parla molto di Africa, di America Latina. Ma occorrerà vedere come Trump procederà sui dazi.
(Paolo Rossetti)
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