Il prezzo del petrolio è salito ieri dopo l'attacco di Israele all'Iran, ma per gli investitori lo scenario peggiore non è in vista
Tutti i principali indici azionari globali ieri hanno chiuso in negativo dopo la notizia dei bombardamenti di Israele sull’Iran. Il prezzo del petrolio ha chiuso la giornata con un rialzo del 7% che si somma a quelli dei giorni precedenti; i rumour di un possibile attacco hanno cominciato a diffondersi già all’inizio della settimana e tra mercoledì e giovedì si è appresa la decisione degli Stati Uniti di spostare il personale non strettamente necessario dall’area.
Il prezzo del petrolio sale tutte le volte che il Medio Oriente si scalda sia per il suo ruolo globale nella produzione di idrocarburi che per i timori sulle rotte commerciali. Ieri un report di Jp Morgan ha evidenziato la possibilità che il petrolio possa raggiungere 130 dollari al barile nel “peggiore degli scenari”; significa ipotizzare il raddoppio dei prezzi di inizio settimana e livelli che non si vedevano dall’estate 2008 qualche mese prima del fallimento di Lehman. Ieri, invece, dopo un rialzo di meno del 10%, i prezzi si attestavano a 74 dollari al barile. Gli investitori, quindi, non credono al peggiore degli scenari oppure lo incorporano con una probabilità molto bassa.
Il peggiore degli scenari non si limita all’interruzione delle esportazioni di petrolio iraniano, circa l’1,5% della produzione globale, ma prevede il coinvolgimento dei siti produttivi e delle infrastrutture dell’area mediorientale, che invece rappresentano più del 30% dell’offerta, oppure l’interruzione dei commerci con il blocco del traffico nello Stretto di Hormuz. Questa seconda ipotesi sarebbe fortemente negativa per lo stesso Iran e per le sue importazioni.
Gli investitori hanno quindi concluso che l’iniziativa militare di Israele non avrà impatti “globali” e non cambierà radicalmente i termini dell’offerta e della domanda di petrolio. Ogni conflitto comporta però rischi di escalation che nessuno è in grado di controllare completamente; i rischi da giovedì sera sono più alti e questo spiega la volatilità di ieri.
È importante sottolineare che le valutazioni dei mercati sono diverse da quelle degli Stati o delle imprese. Gli investitori possono montare o smontare posizioni, comprare o vendere in pochi minuti e le loro decisioni non devono necessariamente riflettere scenari di medio o lungo periodo. Più spesso, anzi, riflettono considerazioni di breve o brevissimo periodo.
L’Iran non è l’unico rischio potenziale per l’area mediorientale. Oltre al conflitto a Gaza, l’instabilità arriva dalla Siria, dallo Yemen e dall’Iraq. Ci sono poi le ambizioni della Turchia oggi molto più forte non solo in Medio Oriente dopo la caduta di Assad, ma anche in Libia, nel corno d’Africa e nell’Africa sub-sahariana. La stessa Arabia saudita coltiva ambizioni regionali.
Le valutazioni su quello che potrebbe accadere nelle prossime settimane possono essere, nel limite del possibile, tranquillizzanti, ma i sistemi-Paese, a differenza dei mercati, devono comunque interrogarsi allungando l’orizzonte temporale.
Le risorse energetiche e le loro catene di fornitura non si costruiscono in ore o giorni come accade per gli investimenti in borsa, ma in anni. Qualsiasi problema su questa componente fondamentale dell’economia minaccia la sopravvivenza dei sistemi industriali e il benessere delle famiglie. Tutto quindi consiglierebbe di puntare su catene di fornitura corte, controllabili e sicure; se possibile domestiche. Tutto sconsiglierebbe scelte ideologiche che limitino, a priori, il numero delle opzioni possibili.
Nel caso italiano la risposta all’instabilità imporrebbe di investire sugli idrocarburi di prossimità, di potenziare celermente l’idroelettrico e programmare il nucleare. Questo anche nella convinzione di essere lontani dal peggiore degli scenari.
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