In occasione del concerto di Pat Metheny, questa sera a Milano con il suo Orchestrion Project, WALTER MUTO dedica una puntata della rubrica “Guitar Hero” al chitarrista statunitense.
Per approfondire questo originalissimo progetto a questi link è possibile leggere la recensione di LUIGI VIVA e il reportage del concerto di Pat Metheny al Barbican di Londra a cura di CARLO VIVA. Pat Metheny proseguirà The Orchestrion Tour passando per Firenze, Roma, Bari, Napoli, Palermo e Catania.
Scegliere un brano di Pat Metheny per parlare di questo straordinario musicista non è un’impresa facile. Si possono passare in rassegna decine e decine di brani del suo sterminato repertorio rischiando però di tralasciare alcuni aspetti caratteristici del suo chitarrismo. Alla fine ho scelto un brano dal tema semplice, non troppo lungo, in cui si possano cogliere vari aspetti della sua poliedrica personalità musicale.
Nato nel 1954 a Lee’s Summit, Missouri, Pat Metheny a meno di vent’anni aveva già militato nel gruppo di uno dei grandissimi del Jazz, il vibrafonista Gary Burton, superando in breve tempo l’altro chitarrista della band e suo maestro, Mick Goodrick. Del 1976 è il suo primo album a suo nome (“Bright Size Life”) , per la ECM di Manfred Eicher, casa discografica fucina di grandi talenti; un album in trio niente meno che con Jaco Pastorius al basso e Bob Moses alla batteria. Del 1978 è invece il primo album a nome “Pat Metheny Group”, che contiene alcuni dei suoi cavalli di battaglia, come per esempio Phase Dance, che riproporrà dal vivo fino ai giorni nostri.
In questi primi lavori si intuisce già la grandezza del chitarrista, sicuramente nella scia di altri big (soprattutto Wes Montgomery), ma con alcune forti peculiarità. Innanzitutto il suono, che verrà imitato da molti altri negli anni a venire; la sua Gibson semiacustica ES 175 viene fatta passare per un chorus e un delay, che costituiscono il suo marchio di fabbrica; poi il fraseggio, che Pat dichiara di aver sviluppato studiando le frasi degli strumenti a fiato (e si sente soprattutto quando – specialmente in trio – suona un jazz più puro e meno contaminato); e poi tutta una serie di contaminazioni che lo portano a intrecciare il jazz con altri generi, negli anni in cui andava molto di moda il termine “fusion”.
Eccoci di fronte, infatti a un brano pieno di influssi brasiliani, come tutto l’album da cui è tratto, “Letter from Home”, del 1989. Suo compagno d’avventure da sempre il pianista Lyle Mays, co-compositore di molti dei pezzi contenuti nei suoi lavori. Intorno a questi due pilastri il Group negli anni ha subito molte trasformazioni, dai primi anni con Mark Egan al basso e Danny Gottlieb alla batteria, fino alla presenza costante di Steve Rodby al basso e contrabbasso dalla fine degli anni Settanta, la collaborazione con Nana Vasconcelos, e tanti altri.
La formazione di questo video del 1989 vede presenti oltre a Metheny, Mays e Rodby, il batterista Paul Wertico, il polistrumentista e vocalist argentino Pedro Aznar e alle percussioni il brasiliano Armando Marcal: Beat 70.
C’è poco da commentare riguardo le doti improvvisative di Metheny: una conoscenza approfondita dell’armonia gli permette di spaziare sempre a suo agio, facendo leva su una grande velocità, unita alla capacità di mettere la nota giusta al momento giusto.
Si apprezzi anche uno dei suoi pezzi più semplici e anche più famosi, dove alla bellezza del tema si unisce un assolo estremamente poetico e centrato, pur senza fantasmagorici fuochi d’artificio: Last Train Home.